Sono in tre, un vano tentativo di barba spunta sul mento e
sulle guance di quello più alto, che parla a voce alta e ride nervosamente.
Sono ragazzi, vestiti alla stessa maniera, jeans scoloriti a vita bassa e
maglietta nera. Chiacchierano del gruppo, della loro cover band, del garage
dove suonano che è umido, dei soldi da trovare per pagare l’affitto, dei brani
da suonare. Parlano dei cachet troppo bassi, del fatto che spendono più di quanto
ricavino ma che alla fine è bello stare assieme, provarci comunque a fare
qualcosa di diverso che non sia lavorare in cantiere.
E al lavoro ci vanno tutti e tre. Partono dal paese alle
cinque e mezzo del mattino, i soldi sì, poi li lasciano a casa, quello che
avanza serve per la sala, per le corde della chitarra, per il microfono.
Parlano in romanesco con un vago accento dell’est, quello ereditato
da madre e padre.
Stanno preparando un repertorio anni ottanta, sicuramente i Police
e Cure. Il più piccolo, biondo con gli occhi verdi, fa un nutrito elenco di
pezzi dei Dire Straits. Avrei voglia di applaudire alla gioia che gli vedo in
faccia. Lui è il cantante, mi ci gioco tutto. Quello che non parla mai, invece,
è il tastierista alle prime armi.
Vanno a lezione di musica. Vogliono imparare a leggerla. È
un’amica della madre che glielo insegna, una violinista che ora sta a servizio.
Poi arrivi tu e tutto cambia. Cambia la luce, il tempo si
ferma e siamo in paradiso. Appena svoltato l’angolo di via Boccea la strada
s’illumina, la piazzetta sporca diventa Nirvana. Indossi una minigonna fucsia,
anfibi ai piedi, chiodo e bandana. Sei così magra che sembri un maschietto. Con
quel caschetto biondo sembri un angelo in missione speciale.
“Ecco la tua bella”, dice il ragazzo taciturno al biondino.
E si fa silenzio: l’arrivo di una femmina cambia tutto, la femmina è altro da
loro.
Il bacio tra voi è tiepido, la vergogna lo assale, un lieve
rossore lo fa voltare, fa mille movimenti strani per non farsi vedere: mi è
entrato qualcosa nell’occhio dice. Rifiuta il tuo aiuto, ti sei subito data da
fare soccorrendolo con un fazzolettino e lui ti scosta la mano con un “faccio
io”, che sa soltanto di fastidio. Vorrei dirti che è tutta una manfrina, di non
credere a quella freddezza, ma continuo a mangiare il mio panino tra cartacce e
orridi piccioni. Una donna africana si è seduta sulla panchina accanto alla
mia, parla da sola.
Poi da una busta tiri fuori qualcosa. Sorridi felice, quei
dolci li hai fatti per loro. Sono muffin al cioccolato, dici, porgendone uno a
ogni membro della Band.
Non so come sono venuti… e ridi, forse ci ho messo troppo
burro… e ridi di nuovo, è la prima volta che li faccio… e ridi ancora
armeggiando con la busta evidentemente strapiena di muffin.
I ragazzi sono così, bella mia. Adesso mangiano tutto e poi
tireranno fuori qualche battutaccia. Lo fanno per non darti importanza, lo
fanno perché sei straordinariamente bella, lo fanno perché sono innamorati di
te, della tua gentilezza e della tua grazia, di questo gesto infantile che ripeti
di continuo infilandoti il pollice in bocca e reclinando appena la testa. Già
non possono fare a meno di te, ti guardano ogni volta che ti volti altrove,
imbarazzata dal loro silenzio: nemmeno una lode, nemmeno un grazie.
Sì…, fa il fidanzatino biondo, in effetti “allappano”.
Ridi ancora e scuoti la testa. Forse non avrebbero detto
nulla se tu non avessi parlato. Se non ti fossi diminuita da sola, discolpata:
per la tua bellezza, per la tua grazia e gentilezza. Che ne sanno loro di
dolci, che ne sanno di muffin al cioccolato. Sei tu che pretendi troppo da te
stessa non loro, loro ti credono umana e finita, non infinita e dea, sei stata
contagiata anche tu l’ansia da prestazione che ci porta a darci senza riserve,
quando a quattordici anni ci sembra di averne così tanto di amore di dovercene liberare
a tutti i costi, quando crediamo a tutto ciò che ci si dice, perché noi per
prime siamo sincere.
Va beh, dice quello alto strappandoti la busta di mano: però
questi ce li portiamo in sala!
Non sono poi così male i tuoi muffin. Ma nessun grazie esce
dalle loro bocche adolescenti. Lo fanno apposta a fare i duri e si vede. Lo so
io che alla tua età soffrivo delle tue stesse incertezze. Ma non posso dirti
niente, devi cavartela da sola.
Ti schioccano un bacio sulla guancia e se ne vanno, scendono
con passo sicuro le scale della Metro. Tu li guardi sparire nel nulla. Tu li
guardi andare via senza perdere il sorriso.
Elena hai la capacità di commuovermi
RispondiEliminaConcordo col commento precedente. Sei bravissima.
RispondiEliminachissà perché mi sono emozionato leggendo...bah...<3
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