Dei film, soprattutto quelli in bianco e nero, ho sempre
prestato maggiore attenzione alle comparse più che ai protagonisti, ai
personaggi di sfondo, ai passanti e a coloro che casualmente finivano nella
pellicola: un errore visibile ma lasciato comunque lì per evitare un altro ciak. Di loro mi
domandavo e mi succede ancora, che fine abbiano fatto, quale sia stato il loro
destino, se abbiano poi finito per lavorare nel cinema o da quanti anni sono
sepolti sotto terra. Di loro nessuno sa niente. Delle odalische dal pancino
prominente e le cosce tornite dei film anni cinquanta nessuno sa se si siano
sposate oppure no, se abbiano avuto figli e una vita serena, se magari hanno
scelto di studiare per diventare avvocatesse o se la loro strada sia stata più
breve, per esempio da Cinecittà al bordo della Salaria. Di ciò che le pellicole
registrano amo scovare particolari invisibili, la punta del microfono sulla
giraffa, la mano del tecnico del suono, il braccio in tensione del segretario
di produzione, il ciak che esce di scena sfuggito allo sguardo attento del
montatore. Mi piace cercare nelle foto di famiglia l’amico dell’amico arrivato per
il caffè al termine del pranzo natalizio, il tizio di cui nessuno sa il nome e
che sta leggermente discosto dai parenti ammassati uno sull’altro per la foto
di gruppo. Sono ritagli di esistenze, refusi d’immagine, tentativi di successo
andati a vuoto, passanti frettolosi al centro della Piazza o che attraversano
una via, automobili in corsa sullo sfondo che contengono esistenze sconosciute,
umanità complesse di cui non conosco la storia e che posso definire a mio
piacere, dando loro un nome e un destino.
La stessa cosa succederà a me e a ognuno di noi, credo,
circondati come siamo da occhi invisibili, che incorporati in telefoni cellulari
microscopici catturano immagini ogni istante e con grande facilità, senza
nemmeno dover alzare vistosamente il braccio o infilare lo sguardo nell’obiettivo.
Sguardi indiscreti rubano istanti di chi non sa di essere stato inserito nell’inquadratura.
Migliaia di microscopici obiettivi che, come prolungamenti di ognuno, nelle
mani di adulti e bambini, al lago, al mare, sui sentieri di montagna o nei boschi, rubano momenti
che vorremmo restassero soltanto nostri, attimi privati e intimi depredati da sguardi
sconosciuti che dovrebbero appartenere soltanto a noi e che mai e poi mai
vorremmo veder finire nell’album di famiglia di chissà chi.
Siamo sempre a
rischio di finire nel video o nella foto di qualcuno, e non più sul belvedere
mentre siamo in posa per il nostro scatto e un po’ sfuocati, ma per strada, in
autobus, in aereo, mentre magari fuggiamo dalla nostra stessa esistenza, mentre
rincorriamo un sogno o cerchiamo un po’ di benedetta solitudine. Un giorno,
forse tra duecento anni, qualcuno si domanderà chi fosse quella donna riccia che
rideva a crepapelle mentre cercava di arrampicarsi sulla roccia, si domanderà
che fine abbia fatto, se sia riuscita a sopravvivere all’uomo che le stava
accanto e cercava di aiutarla ridendo a sua volta. Anch’io diventerò un
fantasma, un refuso d’immagine, un errore, e nonostante me.
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