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lunedì 12 agosto 2013

Refusi d'immagine

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Dei film, soprattutto quelli in bianco e nero, ho sempre prestato maggiore attenzione alle comparse più che ai protagonisti, ai personaggi di sfondo, ai passanti e a coloro che casualmente finivano nella pellicola: un errore visibile ma lasciato comunque lì per evitare un altro ciak. Di loro mi domandavo e mi succede ancora, che fine abbiano fatto, quale sia stato il loro destino, se abbiano poi finito per lavorare nel cinema o da quanti anni sono sepolti sotto terra. Di loro nessuno sa niente. Delle odalische dal pancino prominente e le cosce tornite dei film anni cinquanta nessuno sa se si siano sposate oppure no, se abbiano avuto figli e una vita serena, se magari hanno scelto di studiare per diventare avvocatesse o se la loro strada sia stata più breve, per esempio da Cinecittà al bordo della Salaria. Di ciò che le pellicole registrano amo scovare particolari invisibili, la punta del microfono sulla giraffa, la mano del tecnico del suono, il braccio in tensione del segretario di produzione, il ciak che esce di scena sfuggito allo sguardo attento del montatore. Mi piace cercare nelle foto di famiglia l’amico dell’amico arrivato per il caffè al termine del pranzo natalizio, il tizio di cui nessuno sa il nome e che sta leggermente discosto dai parenti ammassati uno sull’altro per la foto di gruppo. Sono ritagli di esistenze, refusi d’immagine, tentativi di successo andati a vuoto, passanti frettolosi al centro della Piazza o che attraversano una via, automobili in corsa sullo sfondo che contengono esistenze sconosciute, umanità complesse di cui non conosco la storia e che posso definire a mio piacere, dando loro un nome e un destino.
La stessa cosa succederà a me e a ognuno di noi, credo, circondati come siamo da occhi invisibili, che incorporati in telefoni cellulari microscopici catturano immagini ogni istante e con grande facilità, senza nemmeno dover alzare vistosamente il braccio o infilare lo sguardo nell’obiettivo. Sguardi indiscreti rubano istanti di chi non sa di essere stato inserito nell’inquadratura. Migliaia di microscopici obiettivi che, come prolungamenti di ognuno, nelle mani di adulti e bambini, al lago, al mare, sui sentieri di montagna o nei boschi, rubano momenti che vorremmo restassero soltanto nostri, attimi privati e intimi depredati da sguardi sconosciuti che dovrebbero appartenere soltanto a noi e che mai e poi mai vorremmo veder finire nell’album di famiglia di chissà chi. 
Siamo sempre a rischio di finire nel video o nella foto di qualcuno, e non più sul belvedere mentre siamo in posa per il nostro scatto e un po’ sfuocati, ma per strada, in autobus, in aereo, mentre magari fuggiamo dalla nostra stessa esistenza, mentre rincorriamo un sogno o cerchiamo un po’ di benedetta solitudine. Un giorno, forse tra duecento anni, qualcuno si domanderà chi fosse quella donna riccia che rideva a crepapelle mentre cercava di arrampicarsi sulla roccia, si domanderà che fine abbia fatto, se sia riuscita a sopravvivere all’uomo che le stava accanto e cercava di aiutarla ridendo a sua volta. Anch’io diventerò un fantasma, un refuso d’immagine, un errore, e nonostante me. 

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