Era il passo principale e lui lo sapeva. L’avamposto
“Vanilla” a certe pratiche oscure e perverse, che soltanto a pensarle si
sentiva avvampare, roba di cui al momento chiacchieravano in molti e in molti
sembravano esperti, anche se, personalmente, non aveva afferrato ancora il
senso di tutti quei codici e termini da dizionario.
Una cosa però gli era chiara: la paura fottuta per quella
specie di animaletto furente di passione e desideri inconsueti, che da un bel
po’ gli girava attorno, ma pensava anche –o si obbligava a farlo- che se gli
era capitata per le mani con tanto entusiasmo e così casualmente, lasciar stare
equivaleva a dare un calcio alla fortuna.
È roba che si vede anche nei filmetti di serie zeta, si
diceva, non ci vuole tutta questa maestria, pensava lisciandosi la barba e
guardando ciò che di lei aveva trovato in rete, ossia una quantità imbarazzante
di poesiole sgrammaticate e foto, in perizoma volgari, che la ritraevano (a
volte assai sfuocata) in mille posizioni diverse. Fotografarsi di schiena per
mostrarsi a un pubblico di sconosciuti significa già qualcosa, pensava. Però, l’espressione
uguale a quella di tante altre ritratte alla stessa maniera e ormai convinte
che bastava rendersi disponibili per essere irrinunciabili, gli faceva venire
una gran voglia di punirla. Che lei avesse soltanto ventitré anni, invece, era un
ostacolo.
Che cosa avrebbe dovuto fare per liberarsene, dopo? Che cosa
recitare –in tono drammatico- per togliersela di dosso e ritornare al proprio
noioso, ma assai più rassicurante, menage coniugale?
Ma era così evidente il segno del destino, così inconsueta
la sua uscita senza moglie e l’incontro con quella furia di donna, annoiata e
immusonita, che proprio non se la sentiva di dirle addio. Non dopo due mesi di
relazione elettronica e scambi di roba sconcia. Non dopo tanti sogni e
proiezioni così efficaci, almeno nei movimenti sotto il suo pantalone, che lo
costringevano alla scrivania anche durante la pausa pranzo.
L’appuntamento sarebbe stato per l’indomani alle diciotto in
via dei Giubbonari, in un piccolo appartamento che il suo capo usava come pied
a terre, e che lui aveva trovato il coraggio di domandargli in prestito.
E adesso stava davanti al PC come un cretino, domandandosi
se fosse veramente il caso di premere il tasto “invio” e lanciarsi in quella
sordida storia, oppure infilare la mail nel cestino e dimenticare per sempre la
possibile avventura.
Da buon esperto in ingegneria meccanica, da buon padre di
famiglia che gestisce i conti di tutti evitando eccessi, da analista
finanziario dei propri investimenti, l’uomo pensava che per una buona
sculacciata ci volessero soltanto un bel paio di chiappe –possibilmente piene e
sode- e la propria mano ben aperta.
Non le aveva nemmeno cercate, in rete, certe cose. Non immaginava che per farlo bisognasse
studiare, che ci fossero strumenti adatti, che si filosofeggiasse sull’impugnatura,
il suono che ognuno di essi produceva e sul tipo di risultato da ottenere, di
rossore e di segno da lasciare, di punti esatti da colpire, di pause da
allungare e parole da usare.
Per lui, sculacciata voleva dire una tizia da tenere sulle
sue ginocchia col culo bene in vista -anche sulla spalliera del divano andava
bene- con le mutandine abbassate sulle cosce -o fino alle caviglie- pronta a prenderle
di santa ragione. Che ne sapeva lui dei novelli cultori degli strumenti e della
mano aperta, che su E- bay si vendessero spazzole adatte e strumenti d’epoca,
originali o riprodotti. Non aveva mai sentito parlare di “Cane” o “Paddle” o “Tawse”,
conosceva il battipanni di sua nonna con il manico di cuoio e la cintura che
portava ai pantaloni.
Quel gesto così consueto, che
usava con sua moglie giusto per eccitarsi un po’ durante quel su e giù poco entusiasmante
e ormai solo mensile, e che gli costava una fatica immensa da pillola blu, non
era che un buon riscaldamento, e nient’altro. Non era mai andato oltre. Ovvio che quel tremolio di carne lo eccitava
mortalmente: l’arrossamento procurato dallo schiaffo sulla pelle chiara, il
suono, normalmente secco e brillante, ma anche più scuro, secondo la posizione
di mano e dita, se usate di palmo o di dorso, di sguincio o a mano piena, con slancio
o da vicino. L’eccitazione si accendeva immediatamente anche solo all’idea
d’infliggere una punizione dal sapore paterno e per cui sempre giusta,
indiscutibile e sempre ben accolta, perfino da una ribelle come sua moglie -per
non parlare della ventenne rossa con Edipo massiccio.
Prendere in esame solo una parte del corpo, quello che aveva immediatamente
sotto gli occhi, pronto ad accogliere il colpo, ma un po’ teso, gli faceva
salire l’acquolina in bocca. Come un regista con cinepresa poteva allargare o stringere
l’inquadratura fino a vederne anche le imperfezioni, di quel culo, un foruncolo
amabilmente sensuale e umano, la pelle, lucida di olio o sudore, che brilla sotto
una luce piena ma anche nella semioscurità. Poteva usare anche il grandangolo,
se necessario, affinché quella porzione di corpo diventasse un corpo infinito,
ma anche infinite porzioni di corpo. Un numero incalcolabile di culi rotondi, tutti
a sua disposizione, utili a trasformare il piacere dello sguardo in flussi
sanguigni più forti sotto la cintura e ridurre il tutto a un unico concetto, a un’idea
semplice e in perfetto accordo con il proprio cazzo.
L’uomo fece ancora un paio di giri sul blog della ragazza e infine cestinò
la mail. Riguardandola, sfacciata e così evidentemente disponibile, l’aveva
trovata arrogante e un tantino stupida. Uguale a tutte le altre in quel darsi
trasgressivo e falsamente irruento.
Fosse stato lui o un altro, per lei sarebbe stato lo stesso, pensava, gliel’avevano
detto lo sguardo di lei al suo polso e al Patek Philippe ereditato dal padre,
alle scarpe fatte a mano per il proprio piede fuori misura, all’auto, la sua
vecchia Jaguar “E”, sulla quale avevano fatto assurdi progetti di viaggio, a
soltanto a un paio d’ore di distanza dal party e da quell’incontro casuale.
Meglio lasciar perdere, si era detto spegnando il computer. Meglio lasciar
stare, si era ripetuto dando la solita doppia mandata alla porta blindata del
suo studio.
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