Una moglie, Diletta, una madre e una figlia “quadrata”, era
stata anche una studentessa modello, Diletta, e ora uno di quei medici dediti
soltanto al lavoro e alla famiglia. Pronto Soccorso secondo i turni, e poi sala
operatoria. Una vita tra i bisturi.
«Tu sei per caso su twitter?» l’assistente la guardò
sorpreso e lei diede un colpo di tosse. Sorrise in quel modo vago, come quando
era a cena con amici e fingeva di ascoltare quando invece rifletteva sulle
operazioni che l’aspettavano il giorno dopo.
«Mettigli i punti» ordinò «dodici» aggiunse all’indirizzo
del ragazzo in camice, un giovane medico che arrossiva qualunque cosa lei gli
domandasse. Poi si diresse verso il piccolo lavabo lasciando che il suo sguardo
scuro tornasse, a intervalli regolari, proprio sul ragazzo biondo che,
coraggioso e capelluto come un giovane leone, si lasciava mettere i punti senza
emettere nemmeno un fiato.
Slacciandosi il camice pensò che una mascella così l’avrebbe
riconosciuta anche tra la folla. Anche l’angolo del labbro, il destro,
naturalmente piegato all’insù, così vicino a quel neo tanto perfetto da
sembrare finto. Anche le mani, grandi e robuste, ricoperte di peluria fitta e
bionda che sapeva sicuramente di sabbia.
Sfilato un guanto si voltò di nuovo, ma stavolta intercettò
lo sguardo divertito del ragazzo biondo.
No, no, no, pensò Diletta scuotendo leggermente la testa in
un evidente stato di disagio.
Non poteva essere, no, non poteva riconoscerla, no, ma era
certa che fosse proprio lui. Non aveva nessun dubbio.
Il caso non esiste, si ripeteva assieme a una lunga serie di
altre banalità lasciando scivolare lo sguardo riflessivo ovunque fuorché lì sul
lettino, per paura che quel sospetto sottile diventasse una realtà solida e
imbarazzante. Di tanto in tanto, mentre si lavava con cura le mani, con gli
occhi si azzardava a salire fino alla sua mano, alle nocche abbronzate dal
sole, seccate un po’ dalla salsedine, arrivava al dorso e poi viaggiava con
calma tra i solchi e i dossi più scuri fino al polso largo e ricoperto di
peluria bionda, che per lei, sapeva di vento e di mare.
«Lascialo a me» disse in un respiro affannato al giovane
assistente che subito si fece da parte.
«Ne mancano due... », si affrettò a dirle il giovane medico arrossendo
di nuovo.
«Fai pure pausa, vai di là», gli ordinò senza guardarlo,
ritornando a indossare con risolutezza camice, mascherina e guanti.
Non restava che affrontarlo.
I neon e gli alimentatori di corrente friggevano nel
silenzio. Lei si fingeva intenta nel suo lavoro di medico, mentre lui non le
toglieva lo sguardo di dosso spostandolo dalle labbra piccole e carnose agli
occhi, scuri e dal taglio orientale, dal collo lungo alle linee dei seni
abbondanti, e di nuovo su, dove scorreva orizzontalmente la fronte liscia e poi
giù, carezzando col pensiero un orecchio e poi l’altro, e quei pendagli, che
ricordava bene di aver visto nelle foto: l’unico pezzo estraneo alla sua pelle.
Era lei non c’era dubbio.
Non l’aveva cercata, né le era stato dietro... dietro a cosa,
poi: a un nickname del cazzo! E riprese a guardarla ricominciando daccapo, di
nuovo partì a ispezionare la fronte della donna per finire tra i suoi seni ampi
e sicuramente caldi.
Era stato un caso, pensò il ragazzo mentre la donna terminava
il proprio lavoro bardata da chirurgo, così diversa in quello sguardo serio,
nella divisa di ordinanza, tra due ingressi che non facevano che aprirsi e
chiudersi come le porte di un vecchio Saloon.
Che poi il suo nickname era anche carino, nulla di
eclatante, non come quello che usava lui, un nome e una sola intenzione: farsi
qualunque donna dai quaranta in su gli fosse capitata sotto tweet. Almeno quello era il suo motto da
trentenne niente affatto incline alle relazioni fisse, ma preso al laccio dalla
biondina del primo banco e ormai prossimo all’altare.
Anche dopo avrebbe continuato. Se lo ripeteva anche lì,
mentre ripassava quei tratti mascherati e li ricollocava nella location
originale, una camera matrimoniale ordinata ed elegante, piena di specchi, che
lui esplorava appena arrivato in ufficio, nel suo studio di avvocato nato
“figlio di papà”, un quinto piano assolato in via Virgilio con tanto di assistente
e segretaria.
Non avrebbe mai rinunciato a quell’attesa: la donna sposata,
meglio ancora con figli è una pietra dura da scavare, ma sicuramente la scopata
migliore da conquistare. Ti da tutto e subito, diceva e scriveva spesso,
impazzisce dal piacere dopo quattro anni di fedeltà forzata, e ti saluta con un
bacio pieno di promesse.
Perché il ragazzo biondo lavorava su più fronti e su più
social. Le sceglieva con cura e sapeva aspettare. Le guardava capitolare,
lentamente, sapeva e domandava solo il giusto.
E quella che stava terminando la sua medicazione era stata
per lui un incontro speciale, pensò soffermandosi di nuovo sugli orecchini, due
semplici gocce di rubino imprigionate in una sottilissima gabbia di fili di oro
bianco.
«Allora?» disse Diletta guardandolo con occhi accesi, «Ti fa
molto male?», e con la mano guantata di lattice gli sfiorò appena la ferita sotto
il ginocchio della gamba sinistra che, muscolosa abbronzata e bionda, giaceva
tra i lembi macchiati di sangue del pantalone leggero. Alla smorfia di dolore
del ragazzo si levò la mascherina e tornò al lavello.
Aveva recuperato, nemmeno sapeva dove, il proprio ritmo
ospedaliero. Dandogli le spalle, la donna gli fece le raccomandazioni di rito:
i medicinali, il controllo dei punti, evitare bagni di mare.
In lei non c’era più alcuna traccia di quel sospetto.
L’aveva rimosso.
Nella smorfia di dolore del ragazzo, tra le labbra carnose e
quella testa giovane piena di riccioli ribelli, Diletta aveva rivisto qualcuno.
Non suo marito, no. Si chiamava Carlo. Era stato un incidente stupido, una
gomma bucata su una provinciale semideserta a farli incontrare. Quella era
stata la sua unica storia di solo sesso. La sua unica avventura extraconiugale, ma perfetta come linee
dei loro corpi che si stagliavano davanti a un tramonto salentino, tra gli aghi
di pino e la spiaggia deserta su sacchi a pelo che sapevano di sale e sabbia.
Si salutarono il giorno dopo davanti al gommista, in un bar pieno di mosche,
piccolo e buio, che odorava di vino rosso e olio amaro.
Nel frattempo il ragazzo biondo provava a mettere giù la
gamba appena medicata.
«Fai piano» disse la donna rimettendosi di spalle dopo
averlo guardato soltanto per un breve istante.
Se nessuno dei due avesse fatto altre allusioni a Twitter,
il ragazzo biondo non avrebbe insistito in quello sguardo. Ma la donna non aveva
pensato agli orecchini. A quelle due gocce di rubino così particolari e che lei
stessa aveva disegnato. Non pensava nemmeno ai primi piani di se stessa che gli
aveva inviato, quelli nei quali simulava qualcosa di abbastanza ambiguo tenendo
una banana tra le labbra. Erano sempre particolari, certo, la solita visione parziale
da autoscatto, ma chissà perché o l’orecchio destro o quello sinistro
c’entravano sempre nell’inquadratura.
Per il terrore che qualcuno potesse un giorno entrare in
contatto con lei e andare oltre il suo nickname per ricattarla, non inquadrava
mai il proprio corpo e il viso per intero. Per maggior sicurezza copriva anche
i tatuaggi, nel suo caso due: un minuscolo cuore trafitto sulla nuca e le
iniziali dei suoi figli sul polpaccio destro.
No, a quelle due gocce di rubino non ci aveva pensato neppure
un istante.
«Grazie Dottoressa... » le disse il ragazzo biondo che, saltellando sulla gamba sana, s’infilava la giacca leggera.
«Belli quegli orecchini» aggiunse in un sorriso luminoso e pieno di sottintesi.
Diletta non rispose, soltanto, gli fece cenno di non
dimenticare la ricetta dei medicinali.
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