Il Jazz l’ho incontrato appena arrivata a Roma.
In realtà molto tempo prima che mi ci trasferissi per studiare alla Silvio d’Amico.
Ci capitai per caso, una sera di fine Marzo dei primissimi anni ottanta.
Ero alla mia prima fuga da casa. La prima, sì, perché a causa di certa letteratura pensavo che fuori dal mio regno dorato ci fosse molto di più. Ma questa, è un’altra storia.
Quella volta, comunque, avevo compito di greco e il primo rapido per Roma mi parve perfetto. Nell’ansia di essere acciuffata e condotta come Pinocchio davanti a un giudice dalla faccia di scimmia, arrivai a Termini che era pomeriggio.
Sapevo già dove andare, nella mia irrazionalità adolescenziale calcolavo quasi sempre gli effetti delle mie azioni. Il “quasi” a quell’età è d’obbligo. Però, prima di arrivare alla meta, via dei Coronari, volli respirare ancora quella strana aria di libertà che sapeva di pericolo e primavera.
Più tardi, con in mano e un pacchetto di Marlboro rosse, mi ritrovai a Largo de Fiorentini.
Lì mi raggiunse un suono dolcissimo su per le scale di un locale buio e che sapeva di muffa.
Per entrare mi feci largo tra la gente, così tanta che nessuno mi domandò tessera, biglietto o documento, così tanta che raggiungere il palco fu faticosissimo, così tanta che non mi resi nemmeno conto di essere nel cuore del jazz.
Un tizio suonava il sax, teneva sempre gli occhi al cielo, sì, perché credo che il soffitto scuro di pietra viva nemmeno lo vedeva quello lì, impegnato com’era a farsi suggerire gli accordi da dio in persona.
Stava lì, in piedi, dritto come un fuso e così concentrato da sembrare sofferente, così pieno di energia e luminoso, da essere tutt’uno con il suo sassofono. E da quella melodia dolcissima e triste, quel tipo dalla faccia tonda e lo sguardo in estasi, tirava fuori degli urli che parevano più che preghiere, imprecazioni e anatemi, e io che ancora non conoscevo la vita mi domandai cosa fosse quel dolore di tenebra.
Quello che suonava il sax, lo conobbi anni dopo, era Massimo Urbani, sassofonista geniale, morto in un torrido giorno di fine giugno del 1993 (il 23).
Assieme a lui, sul palco, e lì attorno, armati di ance, chitarre, contrabbassi, plettri, piatti, bacchette e spartiti c’era il jazz italiano, quello nascente e quello che di lì a poco sarebbe scomparso, e di là, al bar, un vecchio che sembrava un ragazzo mal messo, magro, americano e un bel po’ brillo.
Era Chet. Ma lo scoprii solo più tardi quando raccontai a mia zia dell’avventura notturna, e del tizio senza denti che suonava la tromba.
Quando mi trasferii a Roma, al Music Inn ci tornai immediatamente e l’atmosfera era la stessa.
Picchi Pignatelli, bionda, elegantissima e dallo sguardo profondamente triste, accoglieva tutti con saluti e baci, il barman, un tizio baffuto che sembrava uscito da un film di Billy Wilder, da mezzanotte in poi mi offriva da bere e la musica, la musica non finiva mai.
Quella sera, al sax, sul palco, c’era Massimo Urbani con suo fratello Maurizio, c’erano Roberto Gatto, Fabrizio Sferra, i fratelli Deidda, i fratelli Corvini, c’erano Giorgio e Dario Rosciglione, Gegè Munari, Riccardo Biseo, Stefano di Battista, Enzo Pietropaoli, Cinzia Tedesco, Maria Pia De Vito, Massimo Nunzi, Pirone, i fratelli Iodice, Cinzia Gizzi, Tony Formichella, Fabio Mariani, Maurizio Giammarco, Umberto Fiorentino, Massimo Moriconi,... e scusate se ne ho dimenticati tantissimi perché l’elenco è lungo, ma il flauto fatato di Nicola Stilo non lo scordo di certo.
C’era il grande Tony Scott, con il suo pantalone aderentissimo che nascondeva bizzarri segreti, con il suo “hey Man” sempre a fior di labbra.
Pepito Pignatelli già non c’era più. C’era però il grande manifesto del suo amico, Gato Barbieri. Ricordo il giovane Pieranunzi. Marcello Rosa con il suo ensemble di tromboni, la sua eleganza e il suo proverbiale humour inglese.
Al Korvin non l’ho conosciuto, preziosissima prima tromba dell’orchestra RAI di Roma -all’epoca ce n’erano tante- e che riempiva il locale, fino all’alba, di lunedì, con la sua ”Jazz Studio Big Band”.
C’era Renato Nicolini.
In quegli anni, alternavo il noioso obbligo scolastico di andare a teatro con la gioia dei locali notturni.
L’Alexander Platz e il Music Inn erano le mie mete preferite, lì la musica si faceva carne e il gioco era tangibile.
Ma l’atmosfera era la stessa anche al Saint Louis, al Caffè Latino, l’Alpheus, da Annina allo Stardust, in vicolo de Renzi, a Trastevere, dove ho sentito l’allora giovanissimo e talentuoso Rosario Giuliani improvvisare fino all’alba di un giorno feriale.
La vita mi ha condotta poi a lavorarci dentro la musica, e poi ad allontanarmene di nuovo. Ma questa, è ancora un’altra storia.
Quest’anno, mi sono ritrovata a scendere le scale di quegli stessi locali e di altri, e mi sono subito fatta una domanda: dov’è finito il jazz? O meglio, dove siamo finiti tutti?
Troppo occupati a sopravvivere?
I “nomi” in cartellone non sono diversi da prima, ma non ci siamo più noi, il pubblico.
Non c’è più pelle, sorriso, abbraccio.
È come se fosse finito il gusto dell’ascolto, del girare per la città di locale in locale soltanto per sentire chi c’è.
E di musicisti giovani ce ne sono, eccome, e di scuole pare ne nascano ogni giorno. Ma forse sono in giro alla ricerca del successo facile, vittime di un marketing che li lega a melismi già noti e di successo. Facili prede degli incompetenti che stanno in tivvù e dei “talenti” di Xfactor che durano al massimo un anno prima di ricoverarsi con i polipi alle corde vocali.
O sono i gestori dei locali che non funzionano.
Localari improvvisati che pensano che Chet Beker sia una marca di birra e Coltrane una nuova griff e che si illudono che con la musica si facciano i soldi.
Una desolazione.
Case del Jazz create dal Comune a suon di milioni e che ospitano DJ set e feste private anziché essere, come promesso dall’allora Sindaco Veltroni, polo d’attrazione e di studio per giovani musicisti.
Villa Celimontana che dopo diciannove anni di attività si vede negare l’aiuto del Comune - ringraziamo Alemanno-.
Se il Jazz esiste, perché non c’è più chi lo ascolta? Perché non è lì?
Farlo da casa, davanti al monitor, non è la stessa cosa.
No, non è uguale starsene sulla sedia con le cuffie nelle orecchie, anziché uscire assieme a lei/lui e mano nella mano attraversare la notte, come prima, come tanto tempo fa, ritmando all’unisono “Giant Steps”.
Non è uguale, no, e da quello che vedo in giro, temo non lo sarà mai più.
E forse è così anche per il Rock dove nessuno più è in grado di far spostare folle oceaniche.
Non vorrei essere spettatrice del tramonto dell’arte.
Un’arte che a farla a pezzi e a riprodurla in serie per venderla, non ha più dato spazio a veri talenti.
Un’arte soffocata dalla ricerca del denaro e del successo, della perfezione e della tendenza.
Un’arte che non ha più nulla da dire, rassegnata ai giornali e ai giornalisti di gossip.
Forse, dovremmo alzarci da qui e fare qualcosa.
Dedicato a Massimo Urbani, e a un mondo pieno di individualità degne di nota.
Grazie Elena molto bello!
RispondiEliminaBellissimo Ele...ma hai proprio ragione, è una vera tristezza...
RispondiEliminaIl problema è che la maggior parte dei musicisti di oggi, ed in particolare quelli del jazz romano, pensano solo ed esclusivamente a:
1 quanto paga il locale
2 a riporre lo strumento nella custodia finita l'ultima nota dell'ultimo pezzo
Non c'è più la VOGLIA di suonare...
In più non c'è più ricerca...mi spieghi perchè musicisti bravi e sopratttutto dalle idee innovative come taaaanti che io e te conosciamo suonano soltanto be bop???
Dov'è l'innovazione?...
....Se chiedi a qualsiasi musicista che gira oggi nel jazz club romani di fare una prova, ti sbotta a ridere in faccia...
Dov'è finito il vero lavoro del musicista?
Quindi preferisco stare a casa (sono anni che nn vado più in giro per i locali, come facevo i primi tempi che stavo qui) dietro al pianoforte e dietro al mio pc a scrivere e procacciarmi lavoro...suonando poco, ma con la gente giusta...
Commovente è dire poco. Mi vengono i brividi leggendoti. It sounds true...Risento le note lontane di Phil Woods nel calore torrido dell'estate di Nizza, quando, pur di ascoltare il jazz, saltai da un muro alto alto e mi ruppi il piede. Nostalgia di quel sudore e di quelle tante emozioni. Grazie Elena, bellissimo scritto.
RispondiEliminache dire tutto questo l'ho vissuto e lo continuo a vivere aime' e' la triste realta' con cui noi musicisti ci scontriamo tutti i giorni e quando cerchi di farti valere il piu' delle volte i localari ti chiedono di portare gente ,ma io sono un musicista non un coglione che porta gente e tra l'altro tanti ragazzini e dopolavoristi quindi non musicisti hanno invaso i locali offrendosi a cifre assurde e portando una miriade di amici quindi il localaro preferisce loro anzi basta che porti gente e sei il piu' bravo non di certo a suonare...ricordare tutti i momenti belli come quelli che hai elencato ed io come altri li abbiamo vissuti sul palco,creando la musica a Roma negli anni dove ancora si parlava di musica e poi aver assistito allo sfracelo che si vive adesso e' veramente una delusione forte che dire questo paese mi ha deluso in tutto e per tutto non e' retorica ma un dato di fatto.
RispondiEliminaDescrizione molto viva e vissuta. Brava, as usual :-)
RispondiEliminaIo, per personale predilezione, più del jazz ho "frequentato" la musica contemporanea più o meno d'avanguardia, il progressive rock e la canzone d'autore (francese specialmente); però essendo il jazz uno dei pilastri della cultura musicale dell'ultimo secolo, ne ho comunque ascoltato un bel po'. E in ogni caso dal jazz non si può "prescindere", dato che ha fruttuosamente contaminato molti altri "generi" del nostro tempo, a cominciare da quelli che citavo prima. Ha riportato in auge la cura nella ricerca delle sonorità "in tempo reale" (l'improvvisazione di qualità, insomma), dopo un lungo periodo di (eccessiva) prevalenza della "scrittura" sulla "performance". E non è poco!
A parte questa premessa, comunque, volevo dire che a mio avviso i problemi che tu riscontri nel jazz dei nostri tempi sono comuni anche ad altri generi di musica. Il rock non mi pare se la passi molto meglio, per dirne una, e non parliamo dell'avanguardia "pura", accademica o meno...
Non è che non ci siano musicisti validi oggi: anzi, tutt'altro! Il livello medio dei musicisti di adesso, in quanto a preparazione tecnica, mi sembra buono, anche lontano dalle grandi città. Quello che manca a volte è il "quid", lo "scatto" interiore che scateni il guizzo originale, la ricerca personale... Oggi ci sono molti epigoni bravi e diligenti (non a caso questa è - secondo me - l'epoca dei "remake" e delle "cover band"), perché si studia tanto nelle scuole e nelle "accademie", ma non ci sono ricerche musicali veramente "nuove", dirompenti.
Seguivo tempo fa, non ricordo più su quale forum o blog sul progressive rock, un dibattito che era partito dalla domanda: "Perché oggi non ci sono più gruppi paragonabili per innovatività e ricerca a ciò che furono gli Area negli anni Settanta?"
Le risposte - un po' malinconiche - non erano molto diverse da quelle che hai dato tu in questo post sul jazz.
Ieri c'era più voglia di lanciarsi generosamente nella sperimentazione di vie e sonorità nuove, per il puro gusto della musica; oggi c'è - come tu dici - l'arte "fatta a pezzi" e sezionata scientificamente per essere meglio inscatolata e venduta. Si è più attenti al "mercato" e meno al "pubblico", e non è la stessa cosa: perché il mercato è un'entità invisibile, indifferenziata e astratta; il pubblico invece è quello vivo, che ti viene ad ascoltare e del quale senti il respiro, il mugugno e l'applauso. Ma oggi si vogliono vendere copie di un prodotto musicale, e quindi bisogna saper vendere alla massa invisibile e astratta; del "pubblico" invece si ha paura, perché è vivo, reagisce, sfugge al "marketing" e quindi non ti permette di "preventivare gli incassi"... Probabilmente lo si vuole abolire del tutto, sostituendolo progressivamente con l'ascolto privato, in cuffia, ognuno in casa propria, a consumare il prodotto standardizzato inscatolato. Qualcuno ci fa credere che isolandoci siamo più liberi... mah! che dire?
cara Elena, bello davvero il tuo racconto e ricordo anch'io l'emozione, appena giunta a Roma, ragazzina della provincia abituata a cantare nei piano bar sin da bambina ed avvezza al palco, di entrare in questi locali che per me avevano un non so che di magico, santuari della musica 'importante' che desideravo fare, palchi che emanavano classe, talento, grinta e spesso anche disperazione...la disperazione di chi, come Massimo Urbani, non riusciva a gestire il proprio talento e sopportare quel dolore latente e sotterraneo che spesso segna la vita di chi vive di arte. Entravo in quei locali e sognavo...respiravo l'odere acre delle sigarette (che non ho mai fumato se non li...ma era un prezzo che pagavo volentieri pur di vivere emozioni che non capivo ma che comunque vivevo).
RispondiEliminaE' un momento difficilissimo quello che stiamo vivendo e non riuscire come musicisti a 'fare squadra' lo rende ancora più difficile. Che poi Comune, Regione e Governo taglino i finanziamenti alla cultura in tutte le sue forme è ormai quasi una condanna che abbiamo accettato... d'altra parte biasimo anche chi organizza i festival con quei pochi soldi ce ancora circolano, soldi dei contribuenti, che sono quindi anche NOSTRI, e che mettono in cartellone gruppi stranieri in percentuale maggiore rispetto agli italiani, facendomi rimpiangere di non essere nata in Francia, dove si difende la propria cultura prima che quella degli altri. Discorso troppo ampio per poterlo esaurire in una mail o in un commento sul web. Tornando alla nostalgia che vibra e coinvolge chi legge la tua lettera, anch'io sono nostalgica...ho nostalgia delle serate bellissime vissute a Villa Celimontana (assurdo che non ci sia un Festival così prestigioso e così importante per la città di Roma, a danno di chi ci lavora come staff, dei musicisti e della città tutta), per l'atmosfera che si respirava al caffè latino, alla coda che si faceva per entrare talvolta all'Alpheus ed alla fortuna per me di essere 'riconosciuta' all'ingresso dell'AlexanderPlatz e di poter entrare anche quando il locale era stracolmo... Pensando a tutto questo anch'io mi chiedo 'dove siamo finiti tutti?' la risposta è troppo dura da scrivere.... Ti abbraccio. Cinzia
Un bellissimo pezzo Elena...Ho suonato al music inn poco prima che anche lady Picchi se ne andasse per non vedere la musica trattata così male.
RispondiEliminaTutti i luoghi che ricordi li ho frequentati e sottoscrivo ogni parola e sensazione che hai provato. Speriamo di non dover continuare a rimpiangere quei momenti ma che la musica e i musicisti trovino nuovi stimoli...anche se è vero che internet e la facilità di reperire tutto ha banalizzato qualsiasi cosa!!
grazie