Foto di Eugene Recuenco
La notte svela sospiri e lamenti, nasconde
storie e ricordi che si animano solo davanti agli occhi di chi è disposto a
guardarli. Le parole non dette o sussurrate appena, ripetute nel caldo
dell’astio covato da tempo con le voci dell’odio che si risveglia per guardare
il rimpianto e gli spazi vuoti dell’amore inutilmente atteso, s’intrecciano, per
arrivare sin qui, in questa stanza, tra me e la finestra aperta sul buio.
Nessun altro sa. Nessun altro
ascolta.
La madia sottile accanto al camino fa
finta di niente, e anche il divano
sembra occuparsi solo di me e del
mio peso assente, e così le due poltrone dai braccioli di legno che guardano
altrove. Solo le tende non ignorano il coro funereo, e si levano a mezz’aria
restandoci un po’, animate come da gigantesche mani o corpi invisibili, precipitando
poi di nuovo in basso, danzando la notte in un ritmo mortale.
La notte cancella i contorni delle
cose e i viventi, all’imbrunire, si confondono con le sagome opache di chi vaga
e cerca di risposte, di chi ancora tenta di aprire la porta di casa, di chi
pensa di essersi addormentato un attimo e basta, e che l’incubo presto finirà.
C’è chi sul marciapiede sta fermo da
anni e ancora si domanda dov’è la sua ombra, sua madre o l’uomo cui stringeva
la mano solo un attimo prima che si facesse buio. Ossa consumate da tempo aspettano
di svegliarsi e di trovare l’umano sorriso lasciato appena qualche ora fa. Facce
cerulee e corpi mutilati, pelle bruciata e abiti a brandelli, cercano una
direzione e una guida.
In questo spazio sospeso abitano tutti
quelli che si sono perduti, che non hanno capito, che si sono distratti esalando
l’ultimo respiro, che hanno lasciato fuggire via il corpo eterico per
attaccarsi alle voci di chi li piangeva. Questi che ascolto sono i lamenti di
chi è rimasto nel piano di mezzo, su un’autostrada che finisce in una vallata
sospesa nel nulla, sul baratro dell’infinito e dell’eterno ritorno.
E posso vederle ovunque le loro
facce scarnificate, i volti trasfigurati dal dolore inespresso, dalla vecchiaia
respinta, dalla sorpresa di una morte che si è cercato di rimuovere a tutti i
costi, allontanata di continuo, minimizzata e ridotta, donata ad altri e con
generosità sorprendente, nascosta dietro la caparbia e cieca affermazione
quotidiana del proprio io, soffocata sotto un delirio d’onnipotenza, puerile, dietro
l’accumulo di oggetti, lauree e riconoscimenti, feste, bagliori e chiasso.
Ma è andata così, ci ha presi alle
spalle, ci ha sorpresi in un attimo lasciandoci in bilico.
Per Marta, invece, la storia è
andata diversamente.
Quella che mi ha aperto la porta
non era la donna dal volto scavato e dalle mani artritiche che avevo intravisto
giorni fa apparire e scomparire dietro le tende.
Marta è una quarantenne bruna, alta
e magra. Tremendamente magra per essere stata una cantante lirica.
Le ho domandato subito come mai lei
riuscisse ad aprire la porta e a versarsi da bere: basta non pensarci, mi ha
risposto soppesando con cura le parole, pronunciandole con una dizione un po’
teatrale, come se quelle fossero le uniche giuste da usare.
Ci ho provato subito anch’io, e
tutto quel ridere ai miei goffi tentavi di agguantare oggetti mi hanno umanizzata
almeno un po’.
Lei è rimasta qui perché suo figlio
è tenuto in ostaggio.
Il suo rapitore, è Vince Lalama.
Non potevo crederci, e ancora
stento a farmene una ragione, ma questo mondo parallelo non è niente affatto
dissimile dal nostro. Anche qui ci sono ladri e malfattori, imbroglioni, gente
losca, solo che qui si vendono e comprano anime come ai mercati generali, sottraggono
sogni e virtù a chi è già da questa parte ma non riesce a fuggire. Loro hanno
un’arma, conoscono bene le debolezze dei vivi, e le usano per tenere sotto
scacco i già morti.
È durante la notte, è nel buio, che
la morte tasta con la sua mano adunca la nostra vita, è attraverso il nostro
respiro profondo che l’oblio entra in noi e ci sottrae forza e vitalità.
Lalama ha su di me mire oscure che
Marta non mi ha potuto dire per non protrarre più a lungo l’agonia di suo
figlio che Vince, grazie alle sue conoscenze tra qui e l’altrove, cercherà di
tenere in ostaggio il più possibile.
Marta conobbe Vince in una notte di
luna piena. Cantava a Sanremo, al Casinò, e lui con la sua due cavalli bianca,
che nelle notte sembrava una scia luminosa tra le stelle, la convinse per un
viaggio improvvisato a Montecarlo.
Erano gli anni ottanta e Vince
aveva all’incirca l’età che dimostra oggi, quando il suo viso non è
trasfigurato dalla morte. Ha fatto una pausa sorvolando leziosamente sulla sua
di età, alzandosi dal divano in una piroetta che è finita nei tre passi che le
servivano per arrivare al mobile bar. Si è versata qualcosa di forte e ha
levato il bicchiere al mio indirizzo.
Tornata al divano ha passato la sua
mano, forte e gelida di morte, sulla mia.
Conosceva bene mio padre, e
Olimpia.
Quella in cui incontrò Vince, era
una di quelle notti in cui sentiva che tutto era possibile e che dagli anni a
venire avrebbe ottenuto il meglio. Le strade erano tutte spianate lì davanti ai
suoi occhi chiari, larghe e lunghe, dritte, autostrade deserte e assolate che
avrebbe percorso senza trovare ostacoli. Era una di quelle notti d’inizio
estate in cui avrebbe voluto correre a perdifiato verso il mare, guardare
sorgere il sole e fissare il punto d’arrivo dei suoi sogni proprio lì, sulla
linea dell’orizzonte.
E lì al Casinò di Montecarlo
sembrarono realizzarsi tutti e di colpo i suoi sogni, e il ventitré vinse,
vinse tanto, vince troppo, vinse quanto mai nessuno avrebbe sognato. Accadde
anche che lei e Vince fecero l’amore e stavolta, per glissare sula faccenda, è
andata alla finestra per spalancarla.
Solo due mesi più tardi, Marta
aveva già preparato i documenti per ipotecare la casa.
Visti i prestiti che chiedeva in
giro, le fughe improvvise verso destinazioni ignote, la voce fuori forma per
gli esercizi mancati, le notti insonni a corrugare la fronte lì al tavolo
verde, a torturarsi mani e fegato per quell’altro milione perso nel nulla,
lasciato al croupier dallo sguardo impassibile, lasciato lì assieme alla
vergogna che non si può non provare davanti agli sguardi di compassione, Marta
stava compromettendo anche la carriera. Davanti a quel ventitré maledetto, a
quel numero bastardo che non voleva più uscire, che si nascondeva, si negava,
passando da un tavolo all’altro e che si confondeva, mischiandosi con le carte
del Blak Jak o chissà dove, lo sguardo vivace di Marta era invecchiato di
colpo. Perso il vigore di un diaframma ormai stanco di pianto, persa la
passione per il canto, che vuole impeto e domanda forza.
Lalama, da amante focoso si era
trasformato in breve in aguzzino pressante e poco loquace, e gli interessi sui
prestiti, aumentavano di giorno in giorno in modo esponenziale.
Lui rideva alle sue richieste di
proroga, l’affrontava in pubblico, la aspettava fuori dal teatro, si metteva in
prima fila per torturarla con la sua presenza minacciosa.
Un giorno però, lo sorprese accanto
alla sua auto scoperta in attesa di qualcuno, vicino alla nostra villa. Fu un
caso che dopo nemmeno un minuto, in quel primo pomeriggio torrido, vide Olimpia
raggiungerlo chiamando il suo nome. Seguì l’auto finché non sparì dietro gli
alberi della villa comunale.
Erano amanti.
S’informò in giro e scoprì che
Lalama riforniva mio padre di pietre preziose provenienti da strani traffici,
seppe anche che era stata Olimpia stessa a presentarglielo.
A questo punto, Marta si è versata
di nuovo qualcosa di forte.
Poi mi ha guardata a lungo.
Ti vidi assieme a lui una volta,
assieme a tuo padre e a Vince, in un bar del centro. Ed è lui, Lola, che abita
da sempre i tuoi incubi, lo so.
L’uomo dai calzini verde petrolio
che fuma sigarette nel buio lo ricordo da sempre, è da quando sono bambina che
nella notte spalanco gli occhi nel buio e sento puzza di fumo. Mi bracca da
allora, da quando sono bambina. E forse erano suoi i passi che scandivano la
mia veglia forzata sul cuscino, sue le dita macchiate di nicotina che mi
sfioravano il viso quando mi pareva che il respiro mi mancasse all’improvviso.
Marta raccontò tutto a mio padre.
Ancora oggi non se lo sa spiegare
quel gesto. In realtà ha balbettato qualcosa sulla gelosia, insana di per sé e
irrazionale nel suo caso, sulla malattia che colpisce molte donne, soprattutto
quelle seducenti, che impazziscono del tutto quando incontrano il tizio
sfuggente, quello che non le vuole e che diventa oggetto di un desiderio
ossessivo.
Era una storia così assurda da
sopravvivere alla sua morte.
Era una storia così folle da finire
in tragedia.
Mio padre affrontò Lalama lo
minacciò dicendogli che tra lui e il gioielliere rispettato, il braccio della
legge non avrebbe esitato un secondo a colpire uno con i suoi precedenti penali
e che sarebbe stato logico anche credere nella buona fede del professionista
piuttosto che dello strozzino.
Lalama lo colpì alle spalle e gli
rubò l’incasso della giornata per far credere a una rapina. Ma quella notte
stessa, Marta lo attendeva sotto casa e lo colpì con ventitré pugnalate al
petto.
Le sue lacrime erano ghiacciate,
come le mie che adesso non so veramente come farò a uscire da qui, da questo
mondo senza cielo e senza luce, da questa società parallela regolata da leggi
che non conosco.
Poi, Marta cercò di rifarsi una
vita. Riprese a cantare e sposò un brav’uomo, un poliziotto, caso strano lo
stesso che si era occupato dell’omicidio di Vince.
Quando una sera, suo marito tornò a
casa felice di poter finalmente riaprire quel caso e con le nuove prove del dna
prendere l’assassino, Marta decise di non aspettare.
Nel raccontarmi di questa beffa del
destino, un livido le si andava tatuando tutto attorno al collo lungo e sottile,
proprio lì, in quell’istante, davanti a me, come se l’evocazione di quella
giornata infausta si manifestasse sotto il mio sguardo sorpreso.
In realtà non trovarono tracce del
mio dna, ha detto infine intonando una risata da brivido, E mio marito non ha
mai saputo il perché del mio suicidio.
Allora sono rimasta qui con loro,
con lui e mio figlio che adesso, in coma da due anni per un incidente d’auto, è
ostaggio di Lalama e della sua acrimonia verso l’umanità.
Ecco perché devo stare lontana da
lui.
Io, secondo Marta, avrei più di una
via d’uscita. Io, ha aggiunto toccandosi la gamba sottile da sotto in su, come
per aggiustare un’invisibile calza un po’ scesa, devo soltanto ricordarmi di
quel giorno e dell’incidente, cercarmi e ritrovarmi.
Di più non ha saputo dirmi.
In questo istante, Max ha aperto
gli occhi e il giorno ha rischiarato le tenebre.
Corro a dargli il buongiorno.
Magari può sentirmi.
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