Io me li ricordo bene gli anni del terrore, quelli in cui
pioveva piombo e noi bambini non capivamo bene. E quegli anni li vediamo adesso
al cinema e in tivvù e ancora non riusciamo a vederci chiaro perché l’analisi
non è mai perfetta se ancora il ricordo brucia. È come quando guardiamo
un’immagine troppo da vicino e non vediamo che figure distorte e colori
sfuocati e contorni imprecisi.
Ma ci siamo, e ci sentiamo tutti in dovere anzi, in obbligo,
di esprimerci e di partecipare al dire collettivo, alla rivolta virtuale dei
tweet che rimarranno tali perché così è giusto, perché alla fine sono solo
vocali e consonanti alla ricerca del pubblico consenso. Come quando parlo con
qualcuno e capisco chiaramente che formula già la sua risposta, che cerca nella
propria vita un ricordo più sensazionale del mio, un episodio che valga
veramente la pena di raccontare.
Sono una persona ottimista. Il dna in partenza non mi voleva
così ma poi ho scelto la felicità un po’ stupida alla nostalgia a tutti i
costi, l’accontentarmi del poco che ho perché alla fine è tantissimo. Quando il
dolore è stato bruciante, ho pensato fosse meglio dirmi che poteva andare
peggio e che sto bene anziché benino, invece che insomma, o abbastanza.
Perché vivere è un casino ma è bellissimo, perché
l’avvicendarsi delle stagioni mi fa sentire parte di questo universo bastardo,
e mi basta.
Ma adesso mi pare di stare di fronte a un palazzo che
brucia, a una torre gemella che sputa corpi come sacchi di sabbia. Sono di
fronte a un muro di gomma completamente sordo alle quotidiane e misere fatiche,
in una società che domanda sensazionalismo anziché verità. Recito davanti a un
pubblico che chiede il volo senza rete e il sangue vero e che sia sempre più
rosso perché ormai non basta più. Mi immergo ogni giorno in questa rete
bastarda che vuole originalità a tutti i costi e che vorrebbe costringermi ad
abdicare a me stessa, alla noia che sempre più spesso mi prende alla
sprovvista, perché apparire, è più importante che essere e a un certo punto ci
domandiamo chi siamo e non ci troviamo più. Abbiamo coperto tutti gli specchi
di casa e ci siamo rifatti il look. Affermare noi stessi è la quotidiana lotta, affermare noi
stessi e compiacerci di quel piacere a qualcuno o ai molti che, di fatto, non
esistono.
Chi potrà mai aiutarmi nel momento dell’abbandono e del
bisogno, chi verrà a prendermi di notte su una strada buia e solitaria se
dovessi perdere le chiavi di casa?
Incolonnati dietro la notizia, solo a quella che qualcuno
vuole farci leggere, uno dietro l’altro chiamati a dire la nostra a voce alta,
sempre più alta, perché c’è chiasso e altrimenti nessuno ci sente. In fila dietro
un pifferaio Magico che nemmeno vediamo né sappiamo più chi sia, nei pressi di
un burrone che non ci fa nemmeno paura tanto siamo presi dal seguire il passo
dell’altro. Tutti così convinti del nostro punto di vista ridotto a una battuta,
così persuasi del nostro valore da sentirci fieri e felici anche se la nostra
vita è un casino e a guardarla così fa veramente pena. E anche se non siamo
convinti di quella nostra idea, va bene così, purché piaccia, purché sia
comprensibile e generi consensi.
Siamo ridotti a un numero di condivisioni e di retweet.
Ridotti al gusto degli altri.
Perché questo mondo liquido non corrisponde mai a ciò che
c’è fuori.
Dove sono le espressioni sorridenti? Dove tutti questi raffinati
seduttori, questi intellettuali dal cervello fino che leggo ogni giorno urlare
la propria rabbia di inappagati e incompresi? Perché in tanti continuano a
saltare il proprio turno, in tanti mettono l’auto in doppia fila, accettano la
raccomandazione, passano la propria cartella clinica sopra le altre allungando
un cinquantino, abbandonano il proprio cane, torturano gatti e mogli e
domandano favori.
Dove sono, nella realtà, i paladini della buona educazione e
dell’onestà e della buona scrittura e dell’opposizione al malgoverno. Dov’è
tutto questo buon gusto condiviso se per strada non vedo che volgarità?
Dove sta tutta questa condivisione se poi le domande che
contano sul serio non trovano mai risposta?
Siamo ridotti a pensarci come un “potenziale” inespresso, ma
non è così. Noi siamo già, e ciò che siamo lo possiamo vedere riflesso nel
monitor e non in quell’icona che ci rende migliori. Ciò che siamo sono tutte le
risposte inevase e gli appuntamenti mancati, le decine di e mail cui
volutamente ci scordiamo di rispondere, sono la falsa compassione nella quale
finiamo per credere, sono l’adesione a grandi cause che alla fine rimangono nei
pixel. Sono i 140 caratteri d’ironia sulla morte di un vecchio, che rimarrà
nella storia, al contrario di noi. Siamo il nostro maledetto conto in
banca vuoto e non la decina di retweet, siamo la nostra coscienza, il
pentimento autentico a tu per tu con le nostre malefatte. Noi siamo la moglie
che non ci soddisfa più e il marito che di là fa finta di lavorare e invece
scrive robe sconce a una che nemmeno conosce, siamo un lavoro di merda che ci costringe a pensare che questa non è che una prova generale e
che presto, il nostro potenziale inespresso e la nostra vita, l’unica che valga
la pena di raccontare, saranno sui giornali e sulla bocca di tutti.
Ma questo ci serve solo a sedare dolore, insoddisfazione e frustrazione, a rimuovere l’amara consapevolezza che si svela nell’incubo, quella di non
essere altro che un numero “id”.
Stanotte ho meditato (per la millesima volta) su cosa sia la volontà e anch'io ho pensato che fa sempre riferimento ad un potenziale inespresso e che consiste in un proposito più un impegno. Ma chi ha detto che ciò che voglio debba stabilirlo pensando? I fatti non contano? Siccome la volontà ha valore positivo, ciò che faccio o non faccio abitualmente e che non mi soddisfa posso bollarlo come avulso dalla volontà o addirittura la negazione della volontà. E se invece la mia volontà si attuasse sempre, costantemente senza chiedermi il permesso, come una reazione chimica spontanea?! Se le cose stessero così dovremmo smettere al più presto di sopravvalutarci e iniziare a pensare che noi siamo esattamente ciò che stiamo facendo o non facendo e non ciò che ci proponiamo di fare. Io nel dubbio ho già smesso di sopravvalutarmi e di pensare a cosa vorrò; sto in un periodo confuso e nichilista
RispondiElimina"Anonimo" sarebbe "Diletta". Non riuscivo a postare in altro modo
RispondiEliminaperfetto Diletta. vedi? dobbiamo sposarci.
RispondiElimina