Foto di Eugene Recuenco
A letto, dopo aver finto di
guardare un film e di navigare un po’ sul web, ha provato a leggere qualcosa,
anche se era distratto e spesso alzava lo sguardo nel vuoto e formulando chissà
quali ipotesi annuiva e scuoteva la testa. Era un grosso libro, uno di quei romanzi
da mille pagine tutta storia e niente poesia, una di quelle infinite saghe
familiari tra lupi e vampiri, uno di quei fantasy che mi facevano arricciare il
naso, che letto uno, letti tutti.
Ha spento la luce e io, rannicchiata
nel suo sonno e nel suo respiro, ho provato per un po’ la sensazione di essere viva.
Mi sono distesa sul suo corpo, troppo magro, e ho sentito i tendini rispondere involontariamente
all’ansia e all’angoscia con brevi sussulti.
Per spingere il tempo in avanti, e
ricacciare indietro le ombre che di notte si fanno moleste, ho percorso mille
volte il profilo della stanza facendo la conta di mobili e cose.
L’armadio, il mio, che sembra
crollare sotto il peso del tempo e degli abiti, troppi, ammucchiati in anni di
scelte mai casuali. Quello di Max, dove camicie, pantaloni, biancheria e
giacche, ipotizzavano, litigando tra loro, l’esito della sua decisione del
mattino dopo, su chi avrebbe avuto l’onore di accarezzargli la pelle chiara.
Prenderà me!, diceva la giacca
grigia al maglione blu notte, No, me!, le rispondeva quella di velluto a coste,
più nuova, meno impegnativa, quella comprata in autunno, a Napoli, nei
“Quartieri”, in una sartoria dove ci eravamo rifugiarti da un pomeriggio di
pioggia incostante e dalla quale uscimmo con la testa confusa, con un foglietto
di quaderno scarabocchiato e tre abiti da ritirare.
Le spazzole e le piccole toilette
di legno mi guardavano come scolarette attente, in ordine di grandezza, dallo
scrittoio rococò. Acquisto di mia suocera e del suo buon fiuto. Regalo di un
mattino d’autunno che non seppi rifiutare, quando lo vidi lì, sulla porta, che
pareva un orfanello ciccione e affamato accanto al tizio che l’aveva
trasportato e che aspettava di entrare. L’ho preso con me e l’ho sempre
trattato con amore, come gli altri, nutrito con oli essenziali, trattato con
antitarli e lucidato a dovere, nonostante covassi per lui un odio sottile e a
ogni intarsio e altorilievo, maledicevo la sua nascita e la sua provenienza. Così
come le poltrone ottocento, due sorelle gemelle e pettegole, relegate in due
angoli bui e distanti tra loro perché non parlassero di continuo, troppo
piccine per sedersi comodamente, troppo ingombranti per non servire a nulla.
La mia vita è piena di “non voglio”
evitati e di sorrisi forzati, messi su alla meglio ogni volta che preferivo
avanzare a passi incerti verso un compromesso e l’indebolimento graduale della
mia volontà. Destino di chi preferisce ubbidire, di chi opta per dei comodi e brevi
“te l’avevo detto”, pronunciati magari a bassa voce, piuttosto che lottare
perché il proprio gusto vinca su quello degli altri. Come quando Olimpia mi
trascinava in giro per gli acquisti di stagione e sceglieva per me abiti che
piacevano soltanto a lei, nonostante i miei ripetuti no e i musi lunghi che via
via si facevano dei “ti farò vedere”, ripetuti tra i denti allo specchio del
camerino, spietato, nel restituirmi un’immagine troppo magra e troppo alta per quella
roba piena di fiocchetti e balze. Ma i troppi “vedrai che ti combino”, aguzzi, si
sono rivelati un tranello, una corda ben tesa su cui sono inciampata ogni qualvolta
ho scelto di vivere al contrario di come avrebbe fatto lei, mai, comunque, come
avrei voluto io.
Forse albeggiava quando ho
riconosciuto le sagome piccolissime e piene di curve delle bomboniere in bella
vista sul comò. Quella di Ambra
che vive in perenne nausea da gravidanza, di Daniela che combatte l’ansia da
prestazione e la competizione a forza di sedute di psicoanalisi e sopporta il
marito, esigente e anaffettivo, a colpi di vibratore, e quella di Luciano, il
povero Luciano che vive con una donna che non lo ama e ancora non lo sa.
Chissà se loro c’erano al mio
funerale.
La collezione di fiabe sonore sono
sempre lì, dalla prima all’ultima, quelli i miei libri, gli unici pezzi sulla
libreria di vetro e ferro battuto, accanto alla porta. Sono le stesse fiabe di
altre notti insonni, quando inseguivo nel deserto il principe Kamar ormai cieco
e Alì Babà, cui speravo di offrirmi un giorno come schiava, pur di fuggire a
tutto quel chiacchiericcio fitto e ostile, quando restavo in ascolto di certi
discorsi, i loro, nella camera accanto.
Eppure ho fatto di tutto per sciogliere
certi nodi.
Ho cercato ogni notte la mia voce
tra tutta quella chincaglieria non mia, tra le bambole antiche di Olimpia, che
di lassù, dal mio armadio già all’epoca sgangherato, mi guardavano, in attesa
che dicessi loro qualcosa per animarsi, anche loro infelici, come gli spiriti
quaggiù. E forse anche loro non sono che animelle perdute racchiuse in un corpo
di cartapesta anziché in una tomba, in un guscio che le lascia al buio, nell’anima
che ognuno di noi decide per loro, a tu per tu con nomi non propri, nella
solitudine in cui anche io le abbandonavo. Troppo delicate per giocarci, troppo
belle per essere gettate via, nascoste d’estate nel tronco cavo della quercia
in giardino, in villa, in paese, al sud, dove prima o poi tornerò nel mio guscio
di legno. Se non ci sono già.
Ho visto Max aprire gli occhi su di
me. Ma è stata solo una
sensazione, una carezza sul cuore.
Era giorno, finalmente la vita
riprendeva per lasciare che almeno tutto quel silenzio pieno di suoni d’oltretomba
e di lamenti, si dileguasse.
Ha guardato l’orologio e ha ammesso,
in un respiro ampio e vibrante, il dolore che dalla sera prima non l’aveva
abbandonato e quello del giorno che veniva, e che si sarebbe sommato all’altro.
L’ho aspettato in cucina, accanto
alla caffettiera muta.
Anche stavolta, Max ha scelto con
cura tazzine e caffè.
Perché Max compra diverse tostature
e aromi. È un feticista del caffè e io, una maniaca dei pezzi unici.
Per avere un servizio da sei di
porcellane uniche e rare, ho mandato in frantumi sei servizi buoni.
Le follie di Lola, come le chiamava
Max per provocarmi, quando sperava che io cedessi e gli raccontassi per filo e
per segno il piacere provato nel permettermi il lusso di un gesto spregevole, disapprovato,
un’infrazione alle regole imposte e terribilmente giuste.
Perché l’emozione di mandare in
frantumi qualcosa di così prezioso, e solo per soddisfare un capriccio, è un
lusso.
Il dire –no, non li regalo-, no non
li metto in una cassa giù in cantina e guardare Olimpia assottigliare gli occhi
e metter su un ghigno di disapprovazione, è stato un lusso. Lasciare che
soffrisse davanti a quello scempio, lei, che già non si muoveva più, che quasi
non parlava, è stato un lusso. Perché ogni tazzina calpestata, ogni piattino
delicato e fragile su cui passavo punta e tacco, erano uno strappo in più a
quel lenzuolo stretto che mi cingeva da anni.
Ogni suo tentativo di voltare la testa
e abbassare lo sguardo davanti a quell’omicidio di piccoli capolavori
artigianali, era la mia vendetta soddisfatta per i segni che ancora porto sulle
braccia. Per il mio cuore indurito che per anni è servito solo a pompare
sangue, inabile a provare piacere per le gioie semplici. O per una carezza.
Facevano tutti parte della sua
maledetta collezione, quei pezzi che ora stanno lì, in bella mostra nel mobile
bar anni cinquanta.
Il servizio di zia Luisa,
conquistato da Olimpia a colpi di minacce e ricatti, quello azzurro cielo e
madreperla appartenuto di Barbara, sua sorella, e che mia madre barattò con un
misero funerale prendendo per il collo la famiglia, reduce da un tracollo
finanziario. Gli altri servizi venivano da regali, regali che lei chiudeva a
doppia mandata nel grande armadio in corridoio, il sancta sanctorum delle sue malefatte.
E chissà se Olimpia, nella sua demenza
da morfina, sa che Lola si è persa e non sa più tornare, né come andare via per
sempre o da quale porta uscire. Forse ha annuito appena quando Max gliel’ha
detto, subito dopo, però, deve aver sorriso, quando Max si è voltato.
L’avrei voluta vedere listata a
lutto come il giorno del funerale di papà, quando non poté fare a meno di venire
accompagnata dal nuovo amante, un commerciante in tessuti del sud, un mezzo
strozzino che andava a puttane e che ogni volta che rimaneva solo con me mi
lanciava sguardi umidi e allungava la mano ossuta sul mio ginocchio in
calzamaglia bianca.
Olimpia piangeva, lì davanti a
tutti, senza vergogna, come fosse normale portarsi l’amante e non tenere la
mano a sua figlia. Come se fosse normale lasciarmi da sola in quella grande
casa, quella notte stessa, io e la mia bambola davanti al grande camino acceso
e la cena pronta nel forno, con Maria che non riusciva a tenere gli occhi
aperti per quanto il pianto li aveva gonfiati.
Quella notte lo sentii chiaramente passare
e ripassare in corridoio, davanti alla mia stanza. Bussò anche, ne sono sicura,
ma scelsi di pensare fosse il vento, la tramontana gelida che soffia da quelle
parti a Febbraio, la stessa che aveva reso quel mattino luminoso, e chiarissimo
il cielo sul suo corpo pallido e vestito a festa.
Olimpia tornò all’alba che ero ancora
sveglia. Allora non sbagliai a immaginare la morte come un continuo errare in
cerca di un’uscita.
Mi guardò appena mentre fingevo un
sonno pesante rannicchiata sotto le coperte, e tornò ridendo sommessamente dal
suo ospite che sicuramente la attendeva davanti al fuoco ormai spento con in
mano un bicchiere di qualcosa.
Sentii il gelo della morte perforarmi
la carne per molti giorni ancora, forse per dei mesi, e per molte notti ancora
tenni gli occhi al soffitto in cerca di un perché.
Papà era uscito al mattino che
sembrava proprio un giorno qualunque. Nella mia memoria è ancora lì, in piedi
accanto alla vecchia cucina che sorseggia il caffè e mi guarda sopra la tazzina
stringendo gli occhi, indeciso se sorridere alle mie trecce tirate alla meglio
sulla testa o al gusto squisito del caffè di Maria che, soddisfatta, e con il
grembiule tra le mani, lo guardava ogni giorno allo stesso modo, con affetto e
compassione.
Una rapina, dissero i due tizi in
divisa che suonarono alla porta alle undici di sera.
Nemmeno in quel momento tragico
Olimpia si lasciò sfuggire l’occasione di farsi prendere tra le braccia da
qualcuno, ma prima si strinse in vita la cintura di velluto viola dell’ampia
vestaglia, per rendere la sua vita ancora più sottile, poi barcollò accostando
la mano alla fronte e subito dopo allo stipite della porta.
È stata una rapina, scrissero i
giornalisti, uniti nel lutto alla famiglia in vista, al gioielliere più stimato
in città.
Che non fu così lo so solo oggi, e
da poche ore. Che mio padre è stato giustiziato lo so da questo pomeriggio e
che la vendetta ancora non è stata portata a termine, ora, è una certezza.
Però l’ho sempre sospettato visto
che dal quel giorno, e ogni notte, l’ho sentito passeggiare su e giù per il
corridoio, come faceva quando stava inutilmente in attesa del ritorno di
Olimpia o di uno squillo.
È stata una rapina Lola, non puoi
dare a me anche la responsabilità della morte di tuo padre. Me l’ha ripetuto
ogni volta che per caso ci ritrovavamo al cimitero, lei carica di fiori da
distribuire agli amanti che pretendeva fossero ancora suoi schiavi e che le dessero
almeno numeri vincenti, io con un sottile fascio di lilium gialli.
Max, ha provato a cancellare dal
viso l’amarezza sorridendo e facendo smorfie nello specchio mentre io lo
guardavo seduta sulla vasca, come facevo tante volte. E anche stamattina avrei
voluto che parlasse, che dicesse qualcosa, a me o a se stesso.
Qualcuno dice che la parola
interiore opprime, e arringare lo spazio vuoto è uno sfogo, che parlare da soli
fa l’effetto di un dialogo con il dio che si ha dentro. Pare lo facesse Socrate,
Lutero e anch’io. Lo diceva mio padre, ma forse l’aveva scritto Victor Hugo
prima di lui.
Ma Max non parla mai da solo.
Lui parla con le sue carte e i
fogli di calcolo bisbigliando cifre. Io discuto, domando e mi rispondo, e
spesso trovo soluzioni impensate.
Max è alla porta.
Questa notte, perché la paura si
dissolva, ti dirò della donna del palazzo di fronte e di mio padre, di quella
notte e della mano armata che me l’ha portato via, lui e il suo dolore da
pagliaccio.
Adesso, voglio solo respirare un
po’ di vita.
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