Da bambina volevo fare l’acrobata. Anche se il circo mi
metteva addosso una tristezza infinita, l’idea di crescere in una famiglia così
grande e di stare alla larga dai meccanismi nevrotici del piccolo nucleo in cui
stavo crescendo, mi entusiasmava. E poi volevo vivere in una roulotte tutta mia
e vestirmi di piume di struzzo e di paillettes anzi, avrei voluto affogarci in
tutto quel luccichio esaltato dal rullo di tamburi.
Ero così minuta e agile che per far comprendere ai miei
l’urgenza di quel desiderio, m’infilavo in ogni valigia che trovavo a portata
di mano. Naturalmente, ci fu la volta in cui mi rinchiusi così bene che stavo
per rimanerci, e tutto finì in un mezzo dramma, con mia madre che camminava su
e giù per la stanza domandandomi da chi avessi preso, spandendo cenere dalla
sigaretta, e mia sorella, che ridacchiava felice per la mia sconfitta.
Forse fu allora che nella mia mente s’insinuò il dubbio che
fossi stata adottata.
Bella morte. Talento circense muore soffocato nella valigia
di cuoio del nonno.
Comunque, quell’episodio non bastò a cancellare il mio sogno,
e ogni volta che ai semafori, signorine in tutù distribuivano volantini del circo,
incominciavo a nutrire la speranza di infilarmi in un baule dei loro, e ritrovarmi
dall’altra parte del mondo, vestita di tulle e pronta per lanciarmi nel vuoto
con un sorriso smagliante.
Col naso all’insù, seduta tra mia sorella interessata solo
ai pop corn e mia madre che guardava di continuo l’orologio pregando che tutto
finisse presto, mi domandavo come riuscissero, quelle signorine bellissime
dagli occhi scintillanti, a volteggiare come trottole e a non perdere i sensi,
e mi chiedevo anche se non fosse per amore che le loro mani, si agganciavano
con quella sintonia alle mani del compagno di turno che si dondolava sull’altro
trapezio. Magari quei due si odiavano, penso oggi, ma a quel tempo questa
ipotesi non era contemplata.
Mi si svuotava lo stomaco a vederli dondolare a testa in giù
in attesa del momento giusto per agganciarsi l’un l’altra, nel vuoto, così
davanti a tutti.
Il mio problema è stato sempre quello: aspettare il momento
giusto, o più semplicemente riconoscerlo, come adesso, che quando dimentico gli
occhiali chiedo passaggi ai camionisti anziché fermare l’autobus di linea.
Eppure i tempi sono stati sempre la mia specialità.
Nella recitazione i tempi sono tutto. Il tempo di un’entrata
in scena, di attacco di una battuta, di un movimento. Perché si può anche snocciolare
una frase troppo rapidamente –e anche quella era una mia specialità- ma è l’attacco
ciò che conta veramente. È lì che si nasconde il talento, nel tagliare la pausa
nel momento esatto. L’arma segreta dell’attore sta nel bucare il silenzio proprio
lì, nella giusta frazione di secondo, né prima né dopo. Ed è lì che si trova anche
l’intensità, la verità della battuta, nel brivido, nell’impazienza frenata,
nell’attesa. E quella roba non si insegna, né si legge su un foglio
pentagrammato, si sa e basta. Sono strumenti del mestiere che non si possono
comprare, si trovano nella pancia e nel coccige, come la presenza scenica. È la
stessa cosa di quando sento che quello che ho davanti è un uomo speciale, e che
mi ha già rubato il tempo a venire, forse tutto quello che mi rimane.
Una volta ho conosciuto un tizio che nella vita non aveva
avuto che idee geniali, idee grandi e rivoluzionarie, e nemmeno le aveva rubate
a qualcuno, erano solo sue, partorite da un testone riccio e messe in opera da
mani grandissime e piene di cicatrici.
Mia madre non mi credette quando glielo raccontai. Mi disse,
naturalmente con dolcezza affinché la delusione non fosse troppo aspra, che se
quel signore aveva avuto idee geniali non doveva trovarsi lì, a un angolo di
strada, vestito di abiti che sapevano di marciapiede e con un fiasco di vino
mezzo vuoto e qualche cicca come unico avere.
Fu in quell’istante che compresi che genialità e
realizzazione devono coincidere, altrimenti non sei niente.
Ma gli occhi di quel tizio, che aveva la sua casa di cartone
proprio all’angolo di una grande banca dai gradini di marmo, avevano qualcosa
di scintillante e indimenticabile, e non mi rassegnavo all’idea che la sua
realizzazione fosse andata altrove, che si fosse persa e piangeva per strade
sconosciute in cerca della genialità che le corrispondeva.
Sì, forse l’aveva perduta, pensavo, forse gli era passata
accanto mentre era occupato a costruire la sua idea fantastica, e non l’aveva
vista. Consumai giorni e settimane, a chiedermi se quella realizzazione
avesse trovato un’altra idea con cui coincidere alla perfezione, come le mani
degli acrobati, o se ancora vagava in cerca del tizio e
del suo talento.
A quel tempo, quando mi dondolavo a testa in giù dal ramo
del grande gelso, in attesa che il mio circo passasse, non avrei mai pensato
che potesse esserci un’altra via. Non avrei mai ipotizzato, allora, che le realizzazioni
si fabbricano in serie, si possono comprare o duplicare a piacere. A volte si
incontrano a cena, casualmente, quando proprio non ci si pensa, altre volte si
scambiano con ciò che si ha, che sia prezioso o meno non importa, e nemmeno
importa a nessuno, se quella realizzazione ha da qualche parte un’idea geniale
o un vero talento che le corrisponde alla perfezione, e che ancora la sta
cercando.
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