Invece la finestra dello studio di Davide dava su un ampio cortile.
Il palazzo, fortunata eredità della famiglia, si trovava nei pressi di Via dei Coronari e, nascosto, si svelava solo a chi fosse stato invitato.
Le finestre a sesto acuto sulla sinistra che, nella bella stagione, si occultavano tra i folti rampicanti, guardavano adesso come occhi avvolti nella cecità il cielo luminoso e terso.
Passando da lì, chiunque avrebbe potuto udire il rauco abbaiare di Freud, il vecchio maremmano di Davide che di tanto in tanto ululava al nulla, forse solo per tenersi in esercizio o per farsi notare.
Ed era da lì che Davide lanciava occhiate severe al mondo che, nel suo caso, si presentava pressoché disabitato e silenzioso.
Ricordi quando incrociai il mio sguardo al tuo e sembrò che non potessimo staccarci mai?
Sì, lo ricordi, non mentire.
Eravamo in Istituto, presentavo il saggio di Maffiotti e tu stavi appoggiata al muro, in cerca di chissà quali parole.
Ero diventato così bravo a evitarti che veramente si poteva credere che tu mi fossi indifferente ma quel giorno non ne fui proprio capace e ritornai su di te più e più volte mentre distrattamente sfogliavo le pagine del libro. Conteneva una preghiera il tuo sguardo, una supplica così sincera che non potei proprio fare a meno di amarti.
Ma perché mi costringi a parlare, perché devo piegarmi a usare parole che non hanno più senso per me, a ripercorrere strade che so bene essere chiuse, sbarrate, impraticabili ormai.
Credevo di essere stato chiaro, che fra noi non si dovesse più ricreare l’inganno, che non dovessi provare mai più la pena del distacco e della noia, della passione momentanea, dell’ingordigia del piacere e della fine di ogni attrazione.
Marina, ti prego, ne potrei anche morire.
Allontana da me ogni pensiero, ti prego.
Eppure so che il solo modo per ucciderti è prenderti, la sola maniera di allontanarti è amarti come vuoi tu, che è lo stesso di come voglio io: lentamente, al buio, misurando il tuo corpo fin nelle pieghe più nascoste, per ore.
Avrei voluto toccarti ogni volta che mi stavi nei pressi, silenziosa, profumata di sud, di sabbia e di mare eppure, ogni volta che le tue mani forti si avvicinavano, mi prendeva un senso di rabbia e di paura infantile e scappavo, e mi alzavo di scatto dalla scrivania –ricordi che una volta rovesciai il vaso con i fiori?-.
E in questo stesso istante lo so che ci sei, t’immagino infilata in una tuta, Pepe che ti guarda dalla poltrona rossa e fa le fusa, tu impegnata in chissà cosa, in cerca della maniera per distruggermi, per allontanarmi da te per sempre: ma non ce la fai.
Marina, Marina e milioni di volte Marina, vorrei dirti vieni qua da me, vorrei alzare il telefono che da stamattina guardo di continuo e dirti scappa, corri, sono qui, aspetto solo te, sei tu l’unica donna che abita i miei sogni e il mio desiderio appena risvegliato.
Ma so già a cosa andremmo incontro: il lento svelarsi dei miei difetti e dei tuoi, la confidenza che diventa ingombrante, l’intimità che a poco a poco si trasforma in fratellanza.
Si portò i palmi delle mani sugli occhi stanchi. Curvo, rimase a fissare il legno della robusta scrivania, le venature più chiare, i minuscoli nodi, le tarlature più e più volte chiuse dall’intervento dell’ebanista Piero.
Sconfitto da quella lunga assenza, assordato dal silenzio, andò alla libreria che si arrampicava fin su in alto e prese un volume che aprì sul frontespizio: Roma 17 Dicembre 2010, tua Marina.
Scorse le pagine fermandosi a leggere le frasi sottolineate, i commenti microscopici apposti sul lato e pianse silenziosamente, stretto nella sua incapacità di rischiare, di andare avanti o di ritornare sui suoi passi che, così decisi, le avevano voltato le spalle.
Foto: Bresson-Bike
Il palazzo, fortunata eredità della famiglia, si trovava nei pressi di Via dei Coronari e, nascosto, si svelava solo a chi fosse stato invitato.
Le finestre a sesto acuto sulla sinistra che, nella bella stagione, si occultavano tra i folti rampicanti, guardavano adesso come occhi avvolti nella cecità il cielo luminoso e terso.
Passando da lì, chiunque avrebbe potuto udire il rauco abbaiare di Freud, il vecchio maremmano di Davide che di tanto in tanto ululava al nulla, forse solo per tenersi in esercizio o per farsi notare.
Ed era da lì che Davide lanciava occhiate severe al mondo che, nel suo caso, si presentava pressoché disabitato e silenzioso.
Ricordi quando incrociai il mio sguardo al tuo e sembrò che non potessimo staccarci mai?
Sì, lo ricordi, non mentire.
Eravamo in Istituto, presentavo il saggio di Maffiotti e tu stavi appoggiata al muro, in cerca di chissà quali parole.
Ero diventato così bravo a evitarti che veramente si poteva credere che tu mi fossi indifferente ma quel giorno non ne fui proprio capace e ritornai su di te più e più volte mentre distrattamente sfogliavo le pagine del libro. Conteneva una preghiera il tuo sguardo, una supplica così sincera che non potei proprio fare a meno di amarti.
Ma perché mi costringi a parlare, perché devo piegarmi a usare parole che non hanno più senso per me, a ripercorrere strade che so bene essere chiuse, sbarrate, impraticabili ormai.
Credevo di essere stato chiaro, che fra noi non si dovesse più ricreare l’inganno, che non dovessi provare mai più la pena del distacco e della noia, della passione momentanea, dell’ingordigia del piacere e della fine di ogni attrazione.
Marina, ti prego, ne potrei anche morire.
Allontana da me ogni pensiero, ti prego.
Eppure so che il solo modo per ucciderti è prenderti, la sola maniera di allontanarti è amarti come vuoi tu, che è lo stesso di come voglio io: lentamente, al buio, misurando il tuo corpo fin nelle pieghe più nascoste, per ore.
Avrei voluto toccarti ogni volta che mi stavi nei pressi, silenziosa, profumata di sud, di sabbia e di mare eppure, ogni volta che le tue mani forti si avvicinavano, mi prendeva un senso di rabbia e di paura infantile e scappavo, e mi alzavo di scatto dalla scrivania –ricordi che una volta rovesciai il vaso con i fiori?-.
E in questo stesso istante lo so che ci sei, t’immagino infilata in una tuta, Pepe che ti guarda dalla poltrona rossa e fa le fusa, tu impegnata in chissà cosa, in cerca della maniera per distruggermi, per allontanarmi da te per sempre: ma non ce la fai.
Marina, Marina e milioni di volte Marina, vorrei dirti vieni qua da me, vorrei alzare il telefono che da stamattina guardo di continuo e dirti scappa, corri, sono qui, aspetto solo te, sei tu l’unica donna che abita i miei sogni e il mio desiderio appena risvegliato.
Ma so già a cosa andremmo incontro: il lento svelarsi dei miei difetti e dei tuoi, la confidenza che diventa ingombrante, l’intimità che a poco a poco si trasforma in fratellanza.
Si portò i palmi delle mani sugli occhi stanchi. Curvo, rimase a fissare il legno della robusta scrivania, le venature più chiare, i minuscoli nodi, le tarlature più e più volte chiuse dall’intervento dell’ebanista Piero.
Sconfitto da quella lunga assenza, assordato dal silenzio, andò alla libreria che si arrampicava fin su in alto e prese un volume che aprì sul frontespizio: Roma 17 Dicembre 2010, tua Marina.
Scorse le pagine fermandosi a leggere le frasi sottolineate, i commenti microscopici apposti sul lato e pianse silenziosamente, stretto nella sua incapacità di rischiare, di andare avanti o di ritornare sui suoi passi che, così decisi, le avevano voltato le spalle.
Foto: Bresson-Bike
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