Tempo fa, causa mancanza di materiale televisivo
interessante: soliti talent, soliti filmacci e serie tivù, ho rivisto, con
immensa gioia, L’avventura, del 1960,
il sesto lungometraggio di Michelangelo Antonioni.
Me lo sono tenuto dentro, ne ho riviste alcune scene, altre
mi sono sovvenute alla mente dopo, per settimane, senza un perché.
Ecco, questa è un’opera che farei vedere e rivedere a chi
pensa che ogni scena all’interno di una narrazione, filmica o letteraria, debba
avere necessariamente una finalità, che debba a tutti i costi, si tratti di
digressione o flash back, portare avanti “il fatto”, perché la massa possa
seguire, pena lo sbadiglio di chi è abituato agli action movie, pena la perdita
d’interesse, pena un “consumatore” in meno.
E sono proprio gli esperti quelli che metterei seduti in
poltrona, dopo avergli requisito l’aggeggio telefonico, a guardare L’avventura, gli esperti e gli addetti
ai lavori, quelli che ritengono che la nostra esistenza non sia fatta
evidentemente di pause di riflessione fine a se stesse o di attimi di pura inerzia
che, a detta di molti, pare abbia in sé comunque una forza.
E forse per molti, oggi, è così, il loro, forse, è un tempo
fatto soltanto di azioni incredibili, giacché limitati dalle continue incursioni
sui social network che pongono di
fatto, chiunque li frequenti, nella condizione di digitare sempre qualcosa d’interessante.
Perché immaginiamo soltanto per un istante Claudia, la
splendida Monica Vitti in attesa che la sua amica Anna scenda di casa con
l’amante, attesa prolungata causa effusioni che i due si stanno scambiando,
questo almeno è ciò che il regista ci lascia soltanto immaginare, che anziché
passeggiare, vagolando in qua e in là annoiata per l’attesa, abbia tra le mani un
cellulare.
Ed è un’immagine agghiacciante.
Per prima cosa sputtanerebbe l’amica con tweet del tipo, lei di sopra a godersela ed io al caldo ad
aspettarla, oppure con dei lapidari: dovevamo
essere già partite, o con sms aggressivi del tipo se non scendete subito, me ne vado.
Invece no, Claudia sorride, si guarda in giro nel sole del
mattino senza fare assolutamente nient’altro che aspettare.
La meraviglia dei film di quell’epoca, italiani ma anche
francesi o svedesi, erano i tempi distesi, lunghi, la vita che scorreva in
fondo senza nessun perché, senza la necessità di arrivare a una definizione
della giornata, della gita, dell’istante, di se stessi, come invece siamo
costretti a fare noi ogni giorno dall’impeccabile biografia su questi maledetti
social network senza i quali, si crede e ci s’illude, non siamo nulla.
Anche la ricerca dell’amica scomparsa sull’isola ha già il
sapore dell’attesa inutile, perché la scomparsa di Anna (Lea Massari) resterà
insoluta, seppur piena di conseguenze e di disvelamenti chiarificatori. Perché
quella scomparsa, e quell’attesa, a causarla è stato forse proprio Sandro, l’amante,
un Ferzetti che vibra soltanto se scosso da amori sofferenti e donne
imprendibili, ed è quindi essa stessa una protagonista, l’attesa, tra un amore
finito e l’altro.
Sandro, che cerca la seduzione e non l’atto.
E sarà soltanto alla fine, dopo uno spazio di bianco e nero
denso fatto di sguardi e di parole rare, quando lo spettatore capirà di che
pasta è fatto l’amante, che quelle pause assumeranno un
significato diverso e ci racconteranno il perché della fuga di Anna e la sua
definitiva scomparsa.
Ma bisogna darsi tempo per capirlo.
Il tempo è il vero protagonista anche delle scene sull’isola di Liscina Bianca, il tempo che si fa burrascoso d’improvviso, il tempo nemico che
ci lascia immaginare un corpo portato alla deriva, quello della dispersa, o
affamato, o assetato chissà dove tra le isole; il tempo, che già si frappone
tra Anna e il suo amante che nel frattempo si è accorto dell’altra. Il tempo
che scorre poi, e che li lascia troppo a lungo da soli, che lascerà svanire in
loro la speranza di ritrovare Anna, che farà sì che s’innamorino ma non per
sempre, per un’avventura, appunto, che non vuole troppo tempo, che è densa e
indimenticabile.
Il tempo di Antonioni non voleva soluzioni definitive, era un
tempo che ci lasciava tutti più liberi: di scomparire per un po’, di non dare
notizie, di non dare spiegazioni sul perché avevamo il cellulare spento, di chi
e quando ci siamo innamorati.
Quello era il tempo che ci lasciava scampo, quando la
vecchiaia non era ancora vergogna, non rottamazione senza se e senza ma, perché
uno o più imbecilli hanno deciso che così va di moda.
Il tempo che è prezioso e noi buttiamo via così, nello
scegliere l’inquadratura migliore e la battuta più cinica che riveli a tutti,
al mondo che deve sapere della nostra esistenza, un aspetto falsato del nostro
tempo.
Perché talvolta il tempo è perso per sempre, che digitiamo
oppure no qualcosa, seppure il plauso altrui ci lascia la sensazione di aver
catturato l’istante, non di averlo irrimediabilmente perso concedendolo agli
altri.
Il tempo del silenzio e della meditazione, quello in cui
ripensare a certe parole, a un film o a uno sguardo, il tempo impiegato a
scalciare un sasso lo abbiamo perduto per sempre, presi come siamo a riempirlo di
fantastiche avventure anche mentre siamo in fila alla cassa di un supermarket,
per esibirlo, come scimmie ammaestrate dietro un monitor che si dice “libertà”
ma si legge “gabbia”.
Sottoscrivo tutto. Anche le virgole. Post da conservare e far leggere a molti.
RispondiEliminaGrazie ;) per lettura e commento. :D
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