
Nemmeno l’abbigliamento è cambiato da allora, lo giuro:
jeans scoloriti e magliette con stampati sopra slogan efficaci e irriverenti, oggi
uguale a ieri. I capelli, pochi e ormai grigi, portati rigorosamente sulle
spalle magre e un po’ curve. Anche lo zainetto fa parte del look post
sessantottino, qualche borsa di cuoio e Kefiah DOC.
Gira anche qualche canna di quelle forti, che se fai un tiro
sei già bello fatto, ma nessuno me la passa. Di contro, e secondo la legge
della condivisione che vige tuttora in certi ambienti, ognuno ha portato qualcosa
da mangiare, o da bere. Io me ne sto in piedi accanto alla porta, in mano una
busta con un paio di bottiglie.
L’aria che si respira è quella del “diamoci del tu e
baciamoci sulla bocca” che, tra tutto questo darsi del lei, un po’ affarista,
certo non guasta. Quando qualcuno m’interpella, parlo, altrimenti preferisco
starmene zitta e osservo. Si parla di ciò di cui si deve parlare a una festa,
di letteratura, cinema e arte, dell’ultimo film Ozpetek, di tutto quello che ho
già letto sulla mia “timeline” che mi aggiorna nonostante io non voglia, che
influenza il mio giudizio comunque, che fa sì che io sappia anche ciò che non m’interessa.
Non manca la politica, Renzi, Grillo e Berlinguer. Dicono
che la sinistra non è morta né morrà finché il loro cuore rosso ancora batte.
Rosso è anche il vino, rosso il tramonto su Campo de’ Fiori: la casa è di
famiglia, qualcuno mormora al mio orecchio, forse per giustificare tanto sfarzo
che, tra terrazza chilometrica e mobilio di arte povera, pare di stare alla
“Ribattola” di BVLGARI.
Anche i ragazzini sono tutti alternativi, i giovani, quelli
che si avvicendano durante la serata a salutare i “vecchi” e a domandare loro la
paghetta.
La musica, nemmeno a dirlo, è quella che ascoltavo da
bambina, Dylan, Taylor e Joan Baez, di Jazz neanche l’ombra, è musica di destra,
lo sanno anche i bambini.
L’onda alcolica è già abbondante, abbondanti le parole, ci
si scambia interlocutore e si riprende dai soliti argomenti: il commercio equo
e solidare, la decrescita felice, il cohousing, fratello anglofone della
vecchia comune, niente di diverso, quindi, a parte un cambio di nome tanto per
essere più al passo con i tempi.
Eppure c’è qualcosa che a un certo punto suona strano, e non
è certo una chitarra, di quella nemmeno l’ombra. Qualcosa stona in tutto quel
bel clima, ed è proprio dopo cena, quando la festa dovrebbe animarsi, che
invece mi ritrovo a stare sola e a guardarmi intorno alla ricerca di occhiate
complici.
Appoggiati al parapetto dell’ampia terrazza, seduti attorno
ai tavoli e in salone sui comodi divani, gli ex combattenti satolli di cibo e
vino, stanno chini sui loro dispositivi elettronici, cellulari e I Pad. Vedo
che qualcuno si è anche attrezzato con il portatile.
Con i loro occhiali da lettura scorrono il dito sullo
schermo. Di tanto in tanto ridono. Parlano tra loro lanciandosi battute a mezza
bocca mentre continuano rapidi a digitare chissà cosa a chissà chi. Si
rianimano per la foto di gruppo e poi si riassopiscono in attesa di postarla.
Poi si ridestano commentando i commenti di commentatori assenti.
Siamo aumentati di numero ed io non me ne sono accorta.
La loro, adesso, è una conversazione chiusa, ormai
inaccessibile a me che non sono on line né sono stata taggata nelle foto. Ed è proprio
di questo che parlano animatamente, di quanti tag si possono mettere su un post
e di come uscire dalle conversazioni, di come la rete ci controlli e di quanto
ciò sia frustrante, di come combattere il sistema e di come uscirne. Io, li
guardo allibita mentre ci sguazzano dentro, beati. Loro sono il sistema, loro
lo alimentano, e non se ne sono ancora accorti. La rivoluzione, russa, e per me
si è fatto veramente tardi.
Sola, tra un mare di persone alle undici me la do a gambe.
Prendo il cellulare solo per guardare l’ora.
Invio un messaggio di S.O.S. destinazione Marte:
extraterrestre, portami via.