L’avvocato le andò incontro in sala d’aspetto e le strinse
la mano. La donna si alzò nella speranza di poter conferire al più presto, ma dopo che lui
ebbe dato uno sguardo all’orologio facendole capire che mancava ancora un po’,
si risedette. L’uomo si allontanò con aria indaffarata dopo aver prelevato un paio
di faldoni che la giovane in tailleur grigio perla aveva già preparato per
lui.
Nella sala d’aspetto, che si trovava esattamente davanti al frontdesk, regnava un silenzio sordo.
La donna si avvicinò alla finestra e guardò fuori, un interno
qualunque con una palma, che l’amministratore di condominio aveva deciso di
lasciar morire, la distrasse per pochissimi istanti. Poi, preso dalla borsa un taccuino
dalla copertina nera scrisse qualcosa e lo lasciò cadere sulla
morbida poltrona di pelle sulla quale aveva appoggiato cappotto, sciarpa, e
cappello da uomo, anch’essi rigorosamente neri.
Faceva un caldo tropicale e così si sfilò il maglione, nero, slacciando un paio di bottoni della camicetta, in tinta. Prima di
lasciarsi cadere rassegnata sulla poltrona, tirò su i capelli lisci
e bruni infilandoci dentro una matita.
Dopo alcuni minuti d’inattività forzata, trasse dalla borsa
alcuni fogli che prese a leggere muovendo le labbra come una scolaretta i primi
giorni di scuola.
L’orologio diede cinque tocchi, lei si voltò verso le
segretarie che insieme le sorrisero.
Al termine dei sei tocchi l’uomo comparve dando ordini alle
due assistenti e, prendendo una chiamata evidentemente di lavoro, le fece
strada fino allo studio.
Infine sollevò la cornetta del telefono fisso, un vecchio
pezzo anni settanta, mise il cellulare in mute, abbassò le luci e si mise
seduto al proprio posto, finalmente pronto ad ascoltare.
«Si sieda», le disse affabile dopo averla squadrata tenendosi
il mento tra due dita. «Allora mi dica», concluse in tono professionale.
Lei guardò in alto, e dopo essersi sistemata la gonna
longuette, iniziò a raccontare procedendo in maniera evidentemente affettata e
poco naturale, come un’attrice al suo primo provino.
«Ho ucciso mio marito... avvocato... sì... gli ho infilato
il coltello in mezzo al petto... quel porco... era un porco... sì... lo
giuro... avvoca... ».
«Ma nooo... nooo... », la interruppe lui riaccendendo la
luce e puntandogliela sull’ovale perfetto.
«Ricominci daccapo, la prego, così non andiamo da nessuna
parte! Riprenda con ordine!».
«Va bene, riprendo! Aspetti che le racconto tutto
dall’inizio».
Finalmente, risollevato il viso dopo circa mezzo minuto di
concentrazione, la donna esibì un’espressione contrita, lo sguardo illuminato
da autentico pentimento. No, anzi, era vera angoscia quella che
chissà quale ricordo era riuscito a evocare.
L’avvocato sentì un movimento sotto il pantalone.
«Sì, continui così, sì, vada a ruota libera, mi dica, l’ascolto,
son tutto orecchi».
La donna accavallò le gambe, lunghe e fasciate da calze fumo
di Londra, e prese a fargli un resoconto, il più dettagliato possibile, di tutte
le violenze subite, delle torture cui il marito l’aveva sottoposta per anni. Gli
disse dei risvegli notturni, di quando tornava ubriaco dalla partita di
calcetto, dei tradimenti con “porche baldracche e puttane”, cui quel “lurido
bastardo, figlio di puttana e impotente” la costringeva ad assistere e spesso anche a
partecipare, passando per tutti i possibili attacchi alla dignità femminile che
le venivano in mente e che sciorinava in un italiano artefatto, che di tanto in
tanto raddoppiava consonanti, scivolando sempre più spesso in un dialetto
musicale e verace.
L’avvocato, che nel frattempo si era alzato dalla comoda
poltrona, le girava attorno cercando il momento più giusto per mettere fine a
quella confessione sopra le righe e a quella storia che faceva acqua da tutte
le parti.
«E il coltello? Dove ha nascosto il coltello? E l’auto?
Perché ha preso quella di suo marito? E chi l’ha aiutata a portare giù il
corpo? Aveva un complice? Era il suo amante? E quale sarebbe il fiume dove l’ha
gettato che qui in città non c’è nemmeno una pozzanghera? Il lago? Dove? Ma se
il mare è a trecento chilometri da qui? Ma che dice? Non si contraddica. Chi ha
chiamato dopo? E la polizia? Se è successo tre giorni fa qualcuno avrà notato di
certo la sua assenza dal lavoro. E le impronte? La pistola? Quale? E dove
l’avrebbe presa? La corda? Quando mai ha parlato di corde?».
La donna, sotto quella raffica di domande, appariva sempre
più smarrita e tremante, disperata affondava le unghie rosso brillante nei
morbidi braccioli della poltrona, dentro cui tentava disperatamente di
rannicchiarsi e scomparire. Annichilita, rispondeva balbettando, si guardava
intorno alla ricerca di un appiglio, di risposte plausibili e di vie d’uscita.
Lui non le dava tregua, riempiva l’aria di gesti ampi ed esclamazioni
spaventose, quelle che gli avvocati usano di norma prima di presentare la parcella,
quando vogliono lasciar intendere al cliente che senza il loro prezioso
intervento gli spetterebbe soltanto il carcere duro, che si tratti di una multa
o un omicidio non fa differenza. Dei “hummm... “ pensosi, che anticipavano
vigorose negazioni del capo, rimbalzavano sulle pareti di legno, brevi risate
nasali, che preludevano a sarcastici “lei crede”, numerosi “dica dica pure” che
già denigravano la soluzione, ovvia, che la cliente gli sottoponeva, le
venivano snocciolati sul viso ormai pallidissimo.
«Perché in giurisprudenza non c’è niente di ovvio... signora» disse quasi in un sibilo al
termine di una lunga pausa, durante la quale si era slacciato la fibbia di
metallo della cintura di cuoio pesante.
«Arrivate qui pensando che la legge sia chiara come una
lista della spesa» aggiunse guardando di sbieco la donna il cui labbro inferiore
aveva preso a tremare leggermente, ancora in sé, nonostante la lunga
performance, ma ormai svuotata e stanca, vinta da quel rimbombare di punti di
domanda e termini astrusi.
«Perché nessuna via, tra quelle che a voi umani appaiono
plausibili e giuste, sono per noi legalmente percorribili... » e con un
elegante cenno della mano la invitò a spogliarsi, mentre per primo le mostrava
con fierezza il corpo ben fatto, asciutto, l’ampio petto ancora memore di
numerosi anni di nuoto agonistico, depilato e abbronzato da lunghe vacanze all’equatore.
«Noi ci nutriamo di vizi di forma, di virgole posposte, di
codicilli e prassi, di norme e sentenze» disse porgendole la cinta.
«Perché se a volte percorriamo scorciatoie, spesso ci
adagiamo in lungaggini. Noi valutiamo, rimandiamo, ci assentiamo... » e si
sfilò i pantaloni eleganti. «Presentiamo istanze, rigettiamo sentenze, ricorriamo
in appello, in cassazione, all’alta corte. Evochiamo l’indulto» disse ancora
mostrandole la schiena larga e muscolosa.
«Ricorriamo al tribunale della Libertà», e si distese a
braccia spalancate sulla solida scrivania, lasciando cadere, in quel gesto
liberatorio, faldoni e agenda, telefono e cellulare.
«Noi lavoriamo duramente perché chi ci paga possa dormire
sonni tranquilli» e allargò le gambe muscolose.
«E adesso la prego, in nome dei cinquecento euro che le darò in nero e cash, per tutto ciò che non ho fatto perché la
giustizia trionfi, e per ciò che ancora non farò, la prego, mi punisca
duramente e con tutta la forza che ha», e con la mano destra afferrò il suo membro in evidente erezione.
Rimase una splendida luce da lettura, un vecchio pezzo da
museo, a illuminare il suo sguardo appagato, che a ogni colpo di cinghia si
chiudeva sul blu cobalto dei suoi occhi.
Qui il mio romanzo http://www.inkedizioni.com/justine-2-0/
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Peccato perché sembrava promettere bene... e invece sbraga un po' nell'ovvio di troppo già letto...
RispondiEliminaTi ho pubblicato questo commento seppur scritto con i piedi, "sbraga" non è un termine propriamente letterario né rispettoso, perché voglio sapere DOVE hai letto dell'avvocato rampante che si fa frustare dalla prostituta. O anche dell'uomo. Normalmente la letteratura è piena di donne masochiste. Allora, spero mi illuminerai. Grazie.
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