Foto: Eugene Recuenco
Devo partire dal principio.
Posso provare a raccontarti queste
ultime ore solo come se non riguardassero me -per non inorridire ancora e non ricominciare
a tremare.
Facciamo che questa è la trama di
un film, un horror ben scritto e dalla regia superba, possibilmente pieno di
sottotrame e implicazioni psicoanalitiche. Sì, diciamo che questa storia non
riguarda me ma un’altra, un personaggio dai tratti un po’ folli. Questa trama è
qualcosa d’incredibile e che non appartiene più solo a questo mondo.
E tu. Tu, in tutta questa vicenda, sei
la sola connessione con il reale- sapessi almeno qual è il reale, poiché l’incipit
si trova in un pomeriggio di circa tre mesi fa che ancora non riesco a
ricordare, soffocato da una coltre pesante di sensi di colpa e rimorsi.
Ricominciamo da dove ho lasciato, e
mentre fermo la paura che ho ancora nelle gambe, provo a riflettere un po’.
Perché sai, una storia come questa
va oltre l’algolagnia, l’animal play, l’abrasione o il pissing, tutta roba comune
a guardarla da qui, anche se a parlarne con il salumaio sotto casa, mi farebbe
rinchiudere in una buona casa di cura.
Ti prego però, non fermarti alle
apparenze come tutti, non guardare in alto, non sbuffare e non scuotere la testa
pensando anche tu che io abbia solo bisogno di un buon dottore.
Non siamo ancora alla fine.
Io e Vince ci siamo fermati per un
po’ in spiaggia dove ho raccolto dettagli sul mio primo incontro con Max mentre
lui, guardando l’orizzonte, ha fumato un paio di sigarette forti. Poi gli ho
domandato di condurmi lì.
Il cancello della villa era aperto.
Giovanni, il giardiniere, nemmeno mi
ha salutata. E pensare che quando io e Max ci andavamo nei fine settimana, mi
faceva trovare iris e bocche di leone in ogni stanza, e arrossiva sempre quando
m’incontrava in giardino.
Quando sono scesa dall’auto, sulla
mia testa non c’era il glicine in fiore ma il suo scheletro ritorto,
addormentato e grinzoso. La fontana era silenziosa e il vento di scirocco
faceva cantare le foglie che si sollevavano danzandole intorno. Tutto era
tramonto. Anche gli occhi di Vince che mi hanno tenuta al guinzaglio sino alla
porta.
Arrivata in cima alle scale, ho
guardato in su per cercare il viso della donna e della bambina, esattamente come
la prima volta, tanti anni fa.
Lalama ha aperto il portone senza
bussare. Conosce già la strada, ho pensato, conosce la casa, sa dove teniamo
nascosta la chiave, sotto il quarto vaso di gerani, sulla destra, il terzo dal
basso sulla scala di pietra.
Mi hanno accolta buio e polvere. Mi
ha accolta una stretta potente alla nuca e subito il marmo gelido sotto le
ginocchia.
Non potevo chiudere gli occhi: perdermi
il suo sguardo sarebbe stato un delitto. Vince, sopra di me mi toglieva tempo e
respiro.
È stata una tortura lenta e
struggente, come se non ci fosse nient’altro da dire, quasi ci fossimo
accordati prima sul da farsi, per non perdere tempo, per non avanzare stupide scuse che tanto non servono a niente.
Quando ha finito, mi sono accorta che il mio viso non era bagnato e neanche il tailleur. Eppure l’avevo
sentito tremare a lungo e mormorare a mezza bocca qualcosa, forse il mio nome.
Ma non era ancora sazio, mi ha
detto.
Io indietreggiavo mentre lui si
teneva allacciato al mio sguardo, come nel preludio di un tango.
Ci hanno accolti il grande tavolo
di legno che tintinnava di coltelli e pentole, il marmo freddo del lavello, la
cantina buia dal sapore d’insaccati e sughero. La scalinata, su cui erano stati
abbandonati lenzuoli bianchi e vecchie tende, è stata per un po’ la nostra
alcova dorata. Poi il grande bagno, dalle cui imposte sconnesse filtravano lame
di luce impolverate, ci ha guardati giocare a chi resiste di più, in bilico,
uno nell’altro, sfiniti, quasi alla resa.
Vince si è allontanato di scatto ed
è scomparso nel buio.
Ho sentito l’odore della benzina
dello zippo e il suo aspirare profondo.
Qui potremmo vederci quando vogliamo,
ho detto rialzandomi dal marmo opaco e massaggiando le ginocchia un po’ livide.
Max ormai non ci viene più, ho aggiunto dalle scale.
No, ha risposto lui, dal piano di
sotto. Sembrava seccato.
L’ho raggiunto unendomi di nuovo a
lui in un abbraccio felice.
Si è allontanato. Ha aspettato
alcuni secondi, assaporava il tabacco.
Poi, ha attaccato uno dei suoi
sermoni sul fatto che prima devo ricordare, che non posso rimanere in questo limbo
quieto, che quest’esistenza che non è né qui né altrove deve finire.
Aveva già indosso i suoi pantaloni
dalla piega perfetta e cercava il resto della sua roba, scartando con malagrazia
i miei indumenti e tutto quanto gli capitava a portata di piedi.
In salone ha acceso la lampada a
stelo, quella vicino al divano. Con calma, durante una pausa che a me serviva
per ragionare, si è seduto, mostrandomi dei bei piedi lunghi e ossuti, come
quelli di un cristo in croce, abbastanza larghi per immaginarli puntellati da
chiodi.
Nel silenzio ho sentito la sua
bocca emettere volute di fumo.
Vieni con me Lola, mi ha detto alzandosi
e prendendomi le spalle poi, di fronte alla mia espressione sorpresa si è
allontanato di qualche passo ed è rimasto di schiena, come se quella fosse una
rivelazione grave più che una richiesta assurda.
Non ho risposto.
Sempre da lì e con un tono ancora
più grave, ha dettato le sue regole. Non devi più scrivergli, ha detto, né devi
restare legata a questa casa e a Max. E me l’ha ripetuto lentamente e più volte
perché lo tenessi bene a mente. Cambiava spesso intonazione fin quasi a cantarle
le parole, con il suo caldo accento che sa di mare.
Basta Lola, mi ha detto, non devi
più dare ascolto a quel tizio che continua a chiederti di parlargli, ti fa solo
del male. Questo mi ha detto. Testuali parole.
Avrei ceduto, stavo per dirgli di
sì, stavo per dargli la mia parola.
Tu lo sai, forse lo hai capito
ormai, che è questa l’unica condizione che mi fa sentire viva.
A me non importa nulla dell’autonomia,
non l’ho mai voluta né cercata. Forse sarebbe stato tutto diverso se al posto
di Olimpia avessi avuto una madre grassa e calda a rimboccarmi le coperte ogni
sera. Ma questi sono elementi che conosci bene, dettagli, cause profonde che il
mio analista e io abbiamo analizzato fino alla noia.
Ma la cicatrice resta e io, il
caldo lo sento solo così: legata.
Inutile ritornarci sopra perché non
ha più molto senso.
Vieni con me, mi ha ripetuto Lalama
guardandomi con occhi tristi.
Per un attimo mi sono detta che sì,
che in fondo Max nemmeno mi vede più. L’avevo lasciato che dormiva riverso
sulla scrivania con una bottiglia accanto, il portatile ancora acceso e la stilografica
e il quadernetto nero sotto la mano.
Sono mesi che gli parlo e lui si
volta altrove, lo sai, che piange per un nonnulla, che a tavola nemmeno mi
domanda di passargli il pane, che non sente le mie chiamate, che non mi saluta
quando esco, che permette a sua madre di fare la spesa e cucinare al posto mio.
Come ho fatto a non capirlo
prima... avevo proprio bisogno che qualcuno mi ci mettesse la faccia sopra
perché tutta questa storia orribile trovasse un senso. Ma certe cose si
rimuovono. È istinto, sopravvivenza.
Allora sono corsa da Vince e l’ho
abbracciato a lungo, ed è stato così che mi sono accorta che un gelo potente lo
teneva assieme.
Mi sono allontanata da quel corpo
in preda al terrore: era come se un cadavere, scivolato via da una bara, mi
fosse caduto addosso all’improvviso.
Avanzando verso di me, Lalama continuava
a ripetermi supplichevoli vieni qua bambina, non fuggire via, non avere paura. E
il suo viso, sempre più pallido, aveva un sorriso che non mi convinceva per
niente, e le mani, più ossute e diafane, sembravano aver perso la forza di
pochi minuti prima.
Correvo, e lui dietro di me, ma le
stanze non rimbombavano dei nostri passi e i tacchi sembravano non toccare
terra e anche le pareti adesso molli, si aprivano al mio passaggio per
ricomporsi un attimo dopo.
Come se entrambi non fossimo che
cupe essenze di una non vita, abbiamo continuato ad andare da una stanza
all’altra in preda al panico.
Poi si è messo a giocare, allegro
come un bambino, con una risata infausta sulla bocca.
Tra me e Lalama, si sono messi la
dormeuse con drappo e poi il grande letto e il grande orologio e il letto
piccino, e il pianoforte muto.
Quando mi ha raggiunta, ero quasi
alla porta.
Tanto nessuno può sentirti, Lola. Mi
tratteneva per il braccio. Lo capisci Lola? Stringeva, ma non sentivo dolore.
Io sono morto, Lola. E anche tu.
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