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giovedì 21 luglio 2011

Anita e la cena del venerdì.


Al quarto piano, ansimo già in modo preoccupante.
Abitare in centro è una fortuna, avere una casa con terrazza può anche salvare la vita, ma arrivare da lui mi pesa ogni volta di più. E gli devo anche portare la spesa.
Quei gradini infernali non finiscono mai, e dopo le quattro rampe basse dei piani padronali, me ne sarebbero toccate altre due, strette e dissestate, mortali.
«Anita? Il latte... ne hai presi due litri?» mi sente che sono ancora a metà della penultima rampa: Emilio è un cane da tartufo.
«Fammi almeno arrivare!» gli rispondo ogni volta, prima di riprendere a salire e misurare il fiato e il battito cardiaco: io sto invecchiando.
Sono decisa a dirglielo, sono pronta a tutto, stasera non farò finta di niente, non finirò anche stavolta per riportarmi al piano terra tutto quel tremore, quella passione irrazionale e stolta che mi prende quando gli sono accanto.
M’innamorai di Emilio immediatamente, appena misi piede in scena, al primo provino che tenne a Prato. Capii che era l’uomo per me quando mi urlò che ero una cagna e mi mollò un ceffone in piena faccia, –era solo una prova, un modo rapido, anche se doloroso, per farmi centrare la parte-.
Mi baciò la sera stessa, come da copione, sotto il pergolato di glicine di una trattoria fuori porta, una luna autunnale pendeva sulle nostre teste e sulla campagna Viterbese.
«Anita! Vieni! Dammi un bacio!» mi urla dalla cucina -la sua voce mi avvolge calda e morbida come una “vellutata” di asparagi e funghi- e io sorrido, lo faccio sempre, compiaciuta come una bambina alla carezza del padre, alla premiazione a scuola.
Emilio e io avevamo deciso così una sera, in camerino, lui con il cerone in faccia e io che mettevo la matita sugli occhi. Io e il mio maestro, regista e attore preferito, saremmo stati - così mi disse attraverso lo specchio e il trucco- solo e soltanto amici. Poi mi palpò il sedere ridendo, una consuetudine antica tra attori, abituati come siamo, e anche inclini, a una certa promiscuità e confusione di sentimenti.
Io lì per lì non ci feci caso, non volli dare troppo peso alle sue parole, e poi mi sentivo forte del fatto che era un uomo, che alla fine avrebbe ceduto alla voglia o alla curiosità, o a entrambe.
Sempre quella sera ci baciammo a lungo, in quinta, ma niente di più di un rito scaramantico, un piccolo "a parte" della recita.
Il suo odore aveva impregnato ogni cosa, in quarant’anni ogni oggetto, libro, mobile o stoffa di quella casa, sapeva di Emilio, che a sua volta profumava di legno, borotalco, tabasco, cuoio, chiodi di garofano e timo.
Sempre appoggiando la voce mi urla «Anita lega i capelli!» e disposti i cibi su due file ordinate, mi guarda in silenzio.
Stai bene stella! Mi dice, sei bella Anita!» e comincia a tirare fuori i tegami. Emilio mi offre da bere e il sole può tramontare.
La serata inizia così.
E mi sembra ancora più bello. Lo guardo da ogni punto di vista e trasparenza e mi domando dove sono finiti tutti i suoi anni, le migliaia di sigarette e le ore di sesso sfrenato spese con tutte ma non con me. Mi domando perché, nonostante questo taglio sempre aperto sul quale Emilio sparge sale, io non manco mai un appuntamento.
Emilio è, nella mia esistenza, il retrogusto ben nascosto che salta fuori all’improvviso e mi sorprende, e così, da vent’anni e con qualunque condizione meteo o di salute, l’ultimo venerdì del mese ceniamo assieme, io e lui, da soli, nella sua piccola casa da attore in Via dei Coronari.
Io, da aiuto cuoco e in tutto quel darsi da fare, posso guardarlo senza essere vista, porgergli la forchetta così da sfiorargli le mani, e addirittura cingerlo, per allacciargli il grembiule.
In sottofondo sempre la radio, sempre classica.
Solo dopo un po’ che sminuzza, taglia e frigge, mi racconta di sé e chiede di me, di tanto in tanto, sempre meno con il passare degli anni. E io recito la parte della donna felice.
E mondando sedano e cipolla mi dico che anche quel venerdì sta finendo, e da domani dovrò di nuovo consumare con rapidità le mie giornate per arrivare al prossimo venerdì, in fretta, il più in fretta possibile. Fra poche ore mi toccherà mettere il cuore in ghiacciaia o sotto sale e chissà per quanto tempo.
Finisco per non dirgli nulla, le parole che recito ogni volta salendo quelle maledette scale, le dimentico all’improvviso, sciolte nell’emozione come farina nel burro, sfrigolanti anche loro nella confusione che genera solo rossore e balbettio, come una giovane allieva alla sua prima recita, come nell'incubo ricorrente di qualsiasi attore.
E poi, un –ti amo da sempre e soffro come una bestia - non darà mai l’esatta misura della condizione in cui mi trovo da tempo.
«Anita, uova!», e gli apro le uova lasciando scivolare il tuorlo nell’impasto e sulle sue mani, le stesse che conosco a memoria e mi toccano ogni notte, nonostante te, Emilio, e i tuoi buoni propositi.
«Anita il latte, latte caldo presto!», e mi brucio le dita.
«Mescola! Occhio ai grumi» e controlla il lavoro, e sporgendosi sulla spalla mi sfiora l’orecchio.
Emilio è maschio fino all’eccesso. I movimenti misurati di chi è stato Amleto e Re Lear, Oreste e Giasone.
Il mio Maestro, attore e regista preferito mi ha condannata, relegata nel ruolo privilegiato di amica e sorella, e dall’ultima fila del nostro teatro itinerante, lo guarderò esibirsi fino all'ultima replica.
Il forno è acceso. Manca ancora una spruzzata di noce moscata! Mancano le tartine e circa quattro ore al nostro arrivederci.
E il mio “no”, s'infrange sul calore morbido delle sue parole, si avvolge tra le sue dita mentre gesticola parlando di sé e del vino, si arrende, come ogni volta, alla maledetta speranza che chissà quando, qualcosa accadrà.

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