Ho ascoltato questo brano almeno venti volte oggi e sempre mi parla di te, ma anche di un altro, di chiunque e di nessuno, sì, avevi ragione.
Negarsi è il solo modo per ottenere attenzione da me, che probabilmente non so amare, che forse sto così bene in compagnia di me stessa e della mia gatta che un altro corpo accanto mi darebbe noia, tanto che preferisco costruirti e disfarti a mio piacere.
E’ questa la mia malattia, un virus che ha a che fare con la paura ma anche con l’egoismo, con il desiderio di sentirmi sempre al sicuro da quell’ostilità che troppo spesso ho sentito nascente dentro di me al cospetto del difetto altrui, della dimenticanza ma anche dell’ossessiva presenza.
E tutto questo è ancora più assurdo perché pur ragionando da anni sull’amore, solo oggi mi rendo conto, e grazie a te e al tuo rifiuto, che non ho mai vissuto un giorno senza un legame ma mi sono rassegnata e va bene così.
Non si può sempre lottare per ottenere il meglio da sé e io è una vita che mi punto il dito contro e che aderisco alle opinioni altrui solo per piacere.
Marina si scostò dal panciuto scrittoio ottocento della nonna paterna, spostò lo sguardo su Penelope -detta anche Pepe- e ciò che vide non fu una gatta rossa e stanca, annoiata, ma se stessa alle prese con una delle sue manie.
Perché non era che una mania la pretesa dell’approvazione generale, una questione di principio l’idea di farcela e di riuscire in tutto, costi quel che costi.
E che male aveva fatto poi quel poveretto, il suo Maestro, quell’ultra sessantenne alle prese con la prostata e con una moglie dalla personalità fagocitante, per dover sostenere anche il peso delle sue provocazioni?
Decise di farla finita con quella sega mentale pomeridiana e chiuse il file senza salvarlo.
Si diresse pigramente nella minuscola cucina e mise su l'acqua.
La stufa non scaldava e l’azienda del gas non faceva dilazioni, il contratto di lavoro sarebbe scaduto a Febbraio e non c’erano novità su nessun fronte.
Ormai era diventata un’esperta nella ricerca di un lavoro, fra l’altro, pensava rivolgendo lo sguardo sulle luci della sera, sui fari delle automobili e i rari passanti, non le sarebbe dispiaciuto fare la cameriera. Avrebbe potuto osservare e carpire parole, come suo solito, non vista, mimetizzata.
Alla fine le bastava poco.
E poi, la sua missione l’aveva trovata e, da sola, era riuscita a colmare il vuoto di una vita sterile.
E versò l’acqua nella teiera, quella comprata a Porta Portese insieme a qualcuno, uno di cui non ricordava che la due cavalli gialla, l’aria frizzante di un giugno avanzato, la fretta nel possederla e nel salutarla.
Sorseggiò tutto d’un fiato il benefico tè assieme all’amarezza di quel ricordo non cercato, casuale, e decise, mentre stava già con lo sguardo sul monitor, che avrebbe regalato quella teiera a Luciana.
Avvolta in un vestito lungo e scuro, caldo, raggomitolata come Pepe che la guardava in cerca di cibo, aprì un buon numero di file, archiviati con cura maniacale.
Era una maestra nel fingere di prestare attenzione a quello spostare virgole e cercare sinonimi più giusti mentre, a intervalli sempre più ravvicinati, apriva e chiudeva la finestra del blog.
La curiosità che tanto cercava di eludere si fece soffocante.
E andò avanti così fra musica e parole per un paio d’ore, finché non lo vide: in risposta al suo breve racconto l’anonimo detrattore aveva postato un video!
E alle diciannove e trenta!
Marina si avviò verso il bagno e coraggiosamente si spogliò.
La doccia bollente trasformò in pura gioia la strana euforia che quel semplice link le aveva messo addosso.
Quella sera stessa Marina avrebbe rivisto “lost in translation”in cerca di utili indizi e nuovi particolari.
E se non ne avesse trovati?
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