lunedì 26 settembre 2011
L'attesa
Alla fine aveva deciso di andarci.
Ci aveva girato attorno per anni, era stato abilissimo a evitare qualunque occasione, a cambiare repentinamente argomento, a simulare una vibrazione improvvisa del cellulare pur di guadagnare il tempo necessario, affinché quel punto di domanda si dileguasse.
Dall’altra parte della città o del tavolo di un ristorante, della scrivania, in aula, separati solo da mezzo metro sulla panchina di una fermata d’autobus, lui la evitava.
Ma quella volta non era stato possibile.
L’aveva chiamata lui, di nascosto, dall’ufficio.
Quel numero non era riuscito a cancellarlo. In realtà l’aveva prima trascritto su un post it, un post it rosa, di sua moglie, e poi lo aveva ripiegato facendone un coriandolo minuscolo che, infilato in una piccola crepa della scrivania, sotto la tastiera del computer, era invisibile persino a lui.
E quel minuscolo segreto era rimasto sepolto lì finché non l’aveva rivista, per caso, mentre sceglieva delle frutta al banco del mercato.
Adesso era lì.
Già due inverni fa lei era sul punto di finirla, con l’altro, suo marito, quello che da giovane “figgiccino” pseudo intellettuale si era trasformato in un dentista di grido dedito alle donne –nemmeno sempre belle- e al gioco d’azzardo, e che puzzava di alcol dozzinale e di gomma di profilattico.
Sul vagone della metro Paolo guardava la sua faccia riflessa a intermittenza, assieme all’unico neon semifunzionante, e cercava di ricomporne l’espressione, i tratti di allora, i suoi e quelli di lei.
Avrebbe fatto meglio ad aspettare l’altro treno, li conosceva uno per uno quei convogli, ne sentiva il respiro sin dal fondo del tunnel. Erano così tanti anni che Paolo saliva su quei vagoni, da poter distinguere di ognuno il diverso tocco sulle rotaie, come i pellerossa le gigantesche mandrie di bufali o di cavalli.
Scese a una stazione prima.
Voleva entrare in un bar e con la scusa del caffè andare in bagno. Voleva guardarsi in faccia, stare a un centimetro da se stesso e riflettere ancora un poco.
Ormai aveva detto di sì, fu l’unica constatazione che riuscì a fare con i polsi sotto l’acqua gelata e la saliva latitante in bocca.
L’avrebbe comunque presa alla larga, lei lo avrebbe aspettato lì, al solito posto, e sicuramente si sarebbe messa a spulciare tra i libri delle bancarelle, alla ricerca di qualcosa sullo yoga, di parapsicologia, sulla cucina macrobiotica o gli effetti dello zucchero raffinato sull’organismo.
Mara sarebbe stata lì ad aspettarlo con i capelli bagnati di luce, gli occhi stretti per il sole ancora forte, la vita abbracciata dalla cintura in un cappotto chiaro, mosso dal vento che viene dal mare e che li avrebbe schiaffeggiati a lungo, prima che riprendessero la ragione fuggita via a quel contatto troppo a lungo rimandato, atteso tanto da togliere il fiato.
Quel dirsi ogni cosa per non dire niente, per occupare di parole lo spazio che li aveva separati, non era bastato a tenerli lontani, lei sarebbe stata lì, in piedi, tra le bancarelle, lo sguardo in cerca, i piedi appena alzati sulle punte, negli stivali neri.
Paolo voleva prenderla alle spalle per non lasciarle il tempo di sorprendersi. Perché Mara si sarebbe sorpresa a vederselo venire incontro con quella faccia che si era visto nello specchio e che aveva ben poco della forza e del coraggio che aveva fin lì dimostrato. Una resistenza messa alla prova per una vita intera, per lasciarla al suo migliore amico, perché lei credesse a tutt’altro, per ignorarla a bella posta come una spiacevole love story da dimenticare.
Mancavano soltanto due isolati e avrebbe intravisto il rosso brillante che usava sulla bocca, gli orecchini, dei cerchi larghi in sintonia con i capelli ricci sempre in disordine, con le collane da zingara in contrasto con gli stretti tailleur che indossava per andare al lavoro.
Mancava soltanto un isolato e avrebbe svoltato l’angolo, e lei sarebbe stata lì, in piedi, tra l’azzurro del mare e il marciapiede.
Mancava un isolato e le avrebbe detto tutto.
Avrebbe confessato che sì, l’aveva sempre amata e voluta, aveva domandato di lei a chiunque, sempre con un’aria superficiale e distratta, che sì aveva sposato Giovanna solo perché le somigliava un poco, perché usava il suo stesso profumo, perché aveva la stessa auto, una vecchia Dianne arancione.
Svoltato l’angolo Paolo non la vide, la cercò tra le bancarelle, al bar di fronte, nel panificio prima della frutteria.
Aspettò all’angolo un buon quarto d’ora e alla fine si convinse che Mara non era lì ad aspettare, non l'avrebbe vista nel cappotto chiaro, i capelli bagnati di luce, un paio di libri usati in mano.
Arrivò fino al faro e si accese una sigaretta: forse, aveva aspettato troppo.
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Tenerissimo, si direbbe.
RispondiEliminaSuccede ,penso con amarezza alle volte che ho aspettato troppo ...sapendo che succederà ancora . Hai iltalento di infilarti tra i miei ricordi personali strappando la patina di scuse ed ambiguità in cui li avevo avvolti . Leggerti è sempre un'emozione ...
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