E’ la terza volta che Terry entra in crisi e vuole cancellare il suo profilo feisbuc.
Ogni sei, sette mesi circa, la mia lunatica amica mette la sua vita virtuale in naftalina per guardare il mondo con occhi diversi poi, constatato quanta parte di umanità si è rintanata lì dentro e quanto, fuori dal monitor e in una città come Roma sia difficile incontrare gente, riprende in mano la sua vita fatta di faccine e di condivisione elettronica.
«Ti ricordi di me?» leggo su un’e mail.
Ed è proprio questo che la sconvolge di più, questo ritrovarsi quando non ce n’era bisogno, quando non ci si era cercati fin qui e dunque perché farlo adesso.
Per non parlare poi delle sue amichette del cuore, ritrovate on line già quasi nonne quando lei spera ancora nel primo figlio!
«Ma guarda questo!» e mi mostra la foto di un signore stempiato, barbuto e in avanzato stato di gravidanza da doppio malto.
«Questo qui, veniva con me al liceo!»
La guardo interrogativa ma ancora non capisco il nesso «Allora? Che problema c’è?».
Guardo di nuovo e con attenzione l’icona del richiedente amicizia.
Il tizio, è alla scrivania che mostra all’obiettivo un sorriso imbarazzato, ma si fa forte delle tecnologie che mostra, infatti, messi in fila e in ordine decrescente vedo un portatile ultima generazione, un I Pad e un I phone, poi, sempre a favore dell’obiettivo una foto in cornice evidentemente Ikea, che lo ritrae attorniato dalla sacra famiglia: una moglie ben agghindata e due bambine notevolmente ben nutrite.
«Mi fa impressione... » e scuote i riccioli che illuminati dal sole sembrano lame di fuoco «mi fa impressione vederlo così quando nella mia mente lo ricordo tanto diverso...»
E infila le mani in una grande scatola rosa confetto a forma di cuore.
«Guardalo!» mi dice con aria contrita mettendomi in mano una foto smangiucchiata dagli anni e dalla tentazione forse di stracciarla per buttarla via. Un gruppo di ragazzi sotto il sole di primavera, seduti sul bordo della fontana di Piazza Umberto in evidente atteggiamento da “fancazzisti” del fine settimana.
Vedo Teresa ragazzina, gli occhi verdi scintillanti cerchiati da due dita di matita nera, i capelli fucsia e una mini gonna di pelle al centro del gruppetto ben assortito di giovani dark e punk di provincia.
«Tu non sei cambiata per niente!»
«Vediamo se lo riconosci» e batte il piede nervoso sullo scricchiolante parquet della cucina.
Guardo. Certo non può essere quello sulla sinistra, bianco come un morto e magro come uno stuzzicadenti che rolla una canna con aria da adulto, e nemmeno il biondino dai pantaloni scozzesi e il chiodo che pare un cimitero per quante croci e spillette ci sono sopra.
«Questo all’estrema destra rasato a zero che tiene al guinzaglio il dalmata no!»
Lei mi guarda e annuisce.
«Pensa che assurdità! Ma guarda com’era diverso!» e rimango a bocca aperta.
E’ vero, penso, fa proprio impressione e le sposto un ciuffo che le sta proprio sull’occhio.
Rimette le mani nella scatola a cuore e rimescola di nuovo le carte, tira fuori un mazzetto di foto e lettere e me le mette davanti una accanto all’altra come una zingara che si appresti alla lettura dei tarocchi.
Un diciassettenne dall’aria imbronciata con una spilla da balia infilata nella guancia, alto e dall’aria assassina, evidentemente il leader del gruppo new wave più figo della città, si è trasformato in intermediatore amministrativo, vive a Pavia, ha tre figli e nemmeno più un capello in testa: dall’icona del suo profilo feisbuk non ha nulla a che vedere con quello che salta a piedi uniti sotto il palco di una Patty Smith di venticinque anni più giovane.
Quello che adesso scrive saggi noiosissimi sulle malattie infettive -ai tempi detto anche “Max il sòla”-, fu ritratto da Teresa su una spiaggia deserta di Monopoli, bianco che sembrava una candela stearica, vestito integralmente di nero e con in mano il secondo volume di storia e storiografia.
«Non ci si può credere!» Le dico mentre strabuzzo gli occhi di fronte all’unica foto che ha avuto il coraggio di mettere on line.
«Ci sono stata solo un mese con lui...» mi fa Teresa, lo sguardo perso in quel passato distante «Era sempre sconvolto e parlava solo di massimi sistemi...»
Adesso lo immagina tenere conferenze in tutto il mondo e sicuramente non beve né si fa le canne.
«E questo Onorevole centrista ma anche destrorso in doppiopetto che saluta una nutrita folla?» e il mio indice inquisitore si avvicina a un’icona al centro della sua pagina feisbuc.
«Beh...questo era il dee jay più figo e inarrivabile della discoteca, il più trandy ed esclusivo del sud...»
Prendo in mano la foto di ragazzo che suona il basso, è piccolo e somiglia tutto a Iggy Pop.
«Lui era Nico» dice timidamente mentre abbassa lo sguardo e respinge con forza un evidente moto di tristezza «al termine di un sabato qualunque abbiamo fatto l’amore, prima sulla spiaggia e poi sulle scale del palazzo di casa mia, all’alba...» e sospira rumorosamente di nostalgia.
«Lui non è su nessun social network. Nico non l’ha vista proprio l’era digitale».
E ripone la foto nella scatola rosa confetto.
Poi mi guarda e mi domanda «Me le passi due cartine?».
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