Sono tornata a Roma da alcuni giorni e di nuovo il tuo nome risuona nei pochi spazi vuoti del mio tempo.
Cosa voglio da te. Cosa ho mai desiderato. Cosa ho visto in una creatura così, uno che di fronte a tanto amore ha deciso che no, non si poteva fare.
E poi perché?
Te lo sei mai chiesto, fra un impegno e l’altro, fra una lezione e una conferenza?
Pensavi magari a chissà quale impegno, a una passione amorosa bulimica, a una perdita di tempo! Io non chiedevo niente, nessun viaggio a Parigi, Davide, nessuno smeraldo.
Con te, di tanto in tanto, avrei voluto passeggiare per le strade del centro, sotto braccio, come due vecchi amici che si sanno leggere dentro. Con te, amore mio, in visita a una mostra o un museo, vincendo così anche le mie paure, l'ansia che mi prende se guardo troppo il bello.
Ti avrei invitato a cena, a casa da me, con tutto quel che segue, se segue.
E sogno, immagino l’attesa del tuo arrivo, le candele, gli incensi, i preparativi soliti per rendere tutto perfetto, per un nuovo inizio, una nuova fine.
Ho imparato a cucinare l’arista al latte, questo non lo sai, e faccio sì che nel lavello non rimangano mai residui di cibo –ricordo ancora quando licenziasti la povera Maria per un'invisibile foglia di prezzemolo rimasta lì per distrazione-. Quando cucino la pasta al forno, bado di fare le polpettine piccolissime, come piacciono a te.
Dicevi sempre che preferivi cenare in casa, che il cibo cucinato con amore ha il sapore della pelle di chi lo ha toccato.
Avrei voluto massaggiarti le spalle, sempre contratte e doloranti, lo so, passarti le mani sulla testa, fra i capelli, e tirar via tutti i pensieri cattivi, le noie, i dubbi sull’esistenza e sull’amore che ancora ti turbano.
Con te avrei voluto parlare, nel buio, fra le carezze, nel tuo respiro.
Ascoltare i tuoi racconti, nel buio, sul tuo cuore.
Quanto invidio la tua capacità di affabulare, e le lunghe pause, e le domande retoriche fatte ad arte alla grande platea, al momento giusto, fino a spezzare la tensione di un momento. L’ironia che scatena una risata collettiva, quella che ti aspetti e che deve arrivare proprio lì, in quel punto esatto.
Avrei voluto contribuire alla tua felicità, essere la giusta componente, l’ingrediente più appropriato al tuo gusto: questo il mio dono.
Camminare accanto a te, in silenzio.
Ricordi quella volta a Praga? Riflessi in quello specchio, sembravamo giusti assieme anzi, perfetti.
Mi concedesti anche un ritardo clamoroso e, scese le scale di quel piccolo albergo, non potesti fare a meno di rubare una rosa: è in un cassetto, quello dei ricordi dolorosi, quello che sai, l’unico chiuso a chiave. Sai bene quale.
E quanto ti diede fastidio non poter vedere cosa c’era dentro! Ricordi?
- Marina, fammi vedere!- e non ti saresti mai aspettato un mio rifiuto, quel giorno che avevo
la febbre alta, quando arrivasti inaspettato dopo avermi annunciato che avresti mandato il tuo medico. Non ci potevo credere, vedendoti nell’ombra, sulla porta, pervaso da un’espressione sconosciuta di docilità e compassione.
Davide, ho scoperto delle rughe sul mio viso, sono piccole lo so, ma presto mi devasteranno.
Avrei voluto le tue carezze per una volta sola e dopo, te lo giuro, mi sarei disciolta per sempre in un ricordo.
Invece, ti sei comportato da maestro, hai mantenuto la parola e, negandoti, mi hai ridotta in catene.
Ma era forse questo che volevi?
Si fermò a lungo a scorrere quelle righe, poi si alzò e, preso cappotto e sciarpa, scese le scale di corsa, come se avesse dimenticato qualcosa di importante o dovesse comprare il pane un minuto prima della chiusura dei negozi.
Percorse il vicolo freddo e si fermò davanti al cortile della casa di Davide.
Accese una sigaretta e si appoggiò al muro finché vide la luce calda dello studio e si nascose dietro l’angolo, il cuore che faceva fatica a correre dietro all’emozione.
E volle immaginarlo in giacca da camera, prima, nel suo cachemire preferito, poi, quello color canna da zucchero che dava risalto al suo incarnato scuro.
Volle vederlo con il solito libro in mano, l’ultimo saggio di Bauman, per esempio, o il “Libro Rosso” appena ristampato.
Immaginò anche la sua espressione annoiata, stanca per la lunga giornata, per la nuova assistente che ancora non sa come lui esige vedere impaginate le parole, le sue, con che tipo di caratteri e dimensioni.
Lo vide lanciare occhiate un po’ dovunque alla ricerca di un’imperfezione, di un ordine non eseguito, di qualcosa di cattivo da dire.
Marina, riascoltò il suono della sua voce sempre sottotono, come se il mondo intero non meritasse di udire quelle parole piene di senso.
Davide, ripensò alla sua creatura fragile, a quella donna che a causa della sua falsa indifferenza aveva quasi perso la ragione.
Guardò a lungo fuori, verso l’angolo buio da cui Marina lo spiava.
Cosa voglio da te. Cosa ho mai desiderato. Cosa ho visto in una creatura così, uno che di fronte a tanto amore ha deciso che no, non si poteva fare.
E poi perché?
Te lo sei mai chiesto, fra un impegno e l’altro, fra una lezione e una conferenza?
Pensavi magari a chissà quale impegno, a una passione amorosa bulimica, a una perdita di tempo! Io non chiedevo niente, nessun viaggio a Parigi, Davide, nessuno smeraldo.
Con te, di tanto in tanto, avrei voluto passeggiare per le strade del centro, sotto braccio, come due vecchi amici che si sanno leggere dentro. Con te, amore mio, in visita a una mostra o un museo, vincendo così anche le mie paure, l'ansia che mi prende se guardo troppo il bello.
Ti avrei invitato a cena, a casa da me, con tutto quel che segue, se segue.
E sogno, immagino l’attesa del tuo arrivo, le candele, gli incensi, i preparativi soliti per rendere tutto perfetto, per un nuovo inizio, una nuova fine.
Ho imparato a cucinare l’arista al latte, questo non lo sai, e faccio sì che nel lavello non rimangano mai residui di cibo –ricordo ancora quando licenziasti la povera Maria per un'invisibile foglia di prezzemolo rimasta lì per distrazione-. Quando cucino la pasta al forno, bado di fare le polpettine piccolissime, come piacciono a te.
Dicevi sempre che preferivi cenare in casa, che il cibo cucinato con amore ha il sapore della pelle di chi lo ha toccato.
Avrei voluto massaggiarti le spalle, sempre contratte e doloranti, lo so, passarti le mani sulla testa, fra i capelli, e tirar via tutti i pensieri cattivi, le noie, i dubbi sull’esistenza e sull’amore che ancora ti turbano.
Con te avrei voluto parlare, nel buio, fra le carezze, nel tuo respiro.
Ascoltare i tuoi racconti, nel buio, sul tuo cuore.
Quanto invidio la tua capacità di affabulare, e le lunghe pause, e le domande retoriche fatte ad arte alla grande platea, al momento giusto, fino a spezzare la tensione di un momento. L’ironia che scatena una risata collettiva, quella che ti aspetti e che deve arrivare proprio lì, in quel punto esatto.
Avrei voluto contribuire alla tua felicità, essere la giusta componente, l’ingrediente più appropriato al tuo gusto: questo il mio dono.
Camminare accanto a te, in silenzio.
Ricordi quella volta a Praga? Riflessi in quello specchio, sembravamo giusti assieme anzi, perfetti.
Mi concedesti anche un ritardo clamoroso e, scese le scale di quel piccolo albergo, non potesti fare a meno di rubare una rosa: è in un cassetto, quello dei ricordi dolorosi, quello che sai, l’unico chiuso a chiave. Sai bene quale.
E quanto ti diede fastidio non poter vedere cosa c’era dentro! Ricordi?
- Marina, fammi vedere!- e non ti saresti mai aspettato un mio rifiuto, quel giorno che avevo
la febbre alta, quando arrivasti inaspettato dopo avermi annunciato che avresti mandato il tuo medico. Non ci potevo credere, vedendoti nell’ombra, sulla porta, pervaso da un’espressione sconosciuta di docilità e compassione.
Davide, ho scoperto delle rughe sul mio viso, sono piccole lo so, ma presto mi devasteranno.
Avrei voluto le tue carezze per una volta sola e dopo, te lo giuro, mi sarei disciolta per sempre in un ricordo.
Invece, ti sei comportato da maestro, hai mantenuto la parola e, negandoti, mi hai ridotta in catene.
Ma era forse questo che volevi?
Si fermò a lungo a scorrere quelle righe, poi si alzò e, preso cappotto e sciarpa, scese le scale di corsa, come se avesse dimenticato qualcosa di importante o dovesse comprare il pane un minuto prima della chiusura dei negozi.
Percorse il vicolo freddo e si fermò davanti al cortile della casa di Davide.
Accese una sigaretta e si appoggiò al muro finché vide la luce calda dello studio e si nascose dietro l’angolo, il cuore che faceva fatica a correre dietro all’emozione.
E volle immaginarlo in giacca da camera, prima, nel suo cachemire preferito, poi, quello color canna da zucchero che dava risalto al suo incarnato scuro.
Volle vederlo con il solito libro in mano, l’ultimo saggio di Bauman, per esempio, o il “Libro Rosso” appena ristampato.
Immaginò anche la sua espressione annoiata, stanca per la lunga giornata, per la nuova assistente che ancora non sa come lui esige vedere impaginate le parole, le sue, con che tipo di caratteri e dimensioni.
Lo vide lanciare occhiate un po’ dovunque alla ricerca di un’imperfezione, di un ordine non eseguito, di qualcosa di cattivo da dire.
Marina, riascoltò il suono della sua voce sempre sottotono, come se il mondo intero non meritasse di udire quelle parole piene di senso.
Davide, ripensò alla sua creatura fragile, a quella donna che a causa della sua falsa indifferenza aveva quasi perso la ragione.
Guardò a lungo fuori, verso l’angolo buio da cui Marina lo spiava.
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