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venerdì 18 luglio 2014

Il culo di Marisa


Il presente racconto è stato inserito nella raccolta "Pioggia dorata", sei storie amare. GiaZira Scritture. Novembre 2015

venerdì 11 luglio 2014

Come su un'isola deserta. Il ritorno.

Tra pochi giorni riattiverò il mio account su twitter, almeno credo.
Anche se vedo quel momento come un incubo dopo il silenzio di queste settimane e anche se so che Twitter può fare tranquillamente a meno di me, so che io non posso fare a meno di lui.
La mia è stata un’assenza istruttiva e terapeutica e giuro che non mi sono mancati gli “io!io!io!”di cui i social risuonano, né i miei né quelli degli altri.
Amici elettronici –che non finirò mai di ringraziare-, mi hanno scritto e telefonato, e dalle loro parole: “beata te”, “brava”, “continua così”, dalle lunghe confessioni e sfoghi che ho ricevuto in queste settimane, ho capito che i social sono per molti una vera schiavitù, e che tra questi ce ne sono altrettanti che, non soltanto non lo ammettono ma trovano sconveniente anche che se ne parli.
E poiché amo tutto ciò che è sconveniente, vi racconto il mio punto vista.

Parrà strano ma mi sono sentita meno sola in questo breve periodo di eremitaggio dal 2.0
Per i malpensanti che non sanno di cosa sto parlando, che non hanno mai letto le mie #deriveditwitter e che mi hanno scritto accusandomi d’ingratitudine, o peggio di andare in cerca di attenzione, rispondo che si può amare qualcosa pur avendo verso di essa un atteggiamento critico, che non tutto è solo bianco o solo nero, che devo molto ai social network ma che sono anche abbastanza adulta da non avere bisogno di mezzucci per cercare visibilità.

Di fatto i social sono un’invenzione straordinaria oltre che diabolica, altrimenti non staremmo sempre a parlarne.
Grazie ai social mi sono divertita a scrivere Justine 2.0 che sempre grazie ai social ho anche vendicchiato.
Quando si scrive di questo tempo qui, non si può prescindere dallo sguardo dei personaggi sul display di un aggeggio elettronico qualunque.
So di uomini che twittano subito dopo il coito.
Di imbecilli che si fanno la selfie con l’amante.
Di amanti che poi inviano le selfie alle loro mogli.
La gogna mediatica a colpi di screenshot risuona anche in tivù ma la notorietà che arriva immotivatamente così se ne va.  


Però ho scoperto che l’astinenza dura poco, parlo di quella fisica, che ti svegli al mattino e la prima cosa che vorresti fare con la tazza di caffè fumante in mano è aprire l’account per controllare lo stato delle cose: retweet e follower.
Ma dura poco. Poi la sostituisci, la dipendenza. Magari fai l’amore, ti siedi al tavolo di cucina per fare colazione e leggere le notizie direttamente alla fonte, rendendoti conto che così fa un altro effetto, che è tutto meno divertente, amplificato, ridondante. Che è tutto meno importante. Che il mondo non è abitato soltanto da gente “arrivata” o che “vuole arrivare”, da sfigati o geni, raccomandati e non, ma anche da chi fa le cose per il solo piacere di farle e che non ha bisogno di lodi e gratificazioni.
Scopri che c’è tanta gente anche altrove soprattutto in strada. La vedi e finalmente la guardi veramente, te ne occupi sul serio della “gente”, e non per cercare qualcosa da twittare che sia il più credibile possibile e divertente. Ti rendi conto dello stato delle cose della tua esistenza che vedi per quello che è, e puoi finalmente capire se ti piace oppure no e attuare un cambiamento, una sterzata pericolosa ma che può salvarti la vita, puoi finalmente riflettere e fare tutto ciò che quel continuo tenere lo sguardo sul mondo –o meglio sul suo riflesso- ti impediva di fare.
In queste poche settimane ho letto il triplo, lavorato a velocità supersonica e dato via sacchi di roba inutile.

Per riempirsi bisogna svuotarsi.
E come fai se t’impegni di continuo ad accumulare maschere?
Ad apparire anziché essere?
A giudicare qualcuno senza mai guardarlo negli occhi?
Ci siamo ridotti a fotografare il mondo non perché ce ne rimanga il ricordo, di quella giornata, di quel viso, di quel tramonto ma per manifestarci: ecco io ci sono.
Raccontiamo senza più guardare o peggio, guardiamo soltanto per poter raccontare.

Sapendolo, forse, si può fare qualcosa. Essendone consapevoli, si può evitare di ricaderci. Illudendosi di essere autentici sui social network, no.
Ho capito che i social servono a fare chiasso dentro, un po’ come chi tiene il televisore sempre acceso illudendosi di avere compagnia. 


lunedì 7 luglio 2014

Portrait

Se te ne andassi con un altro non ti biasimerei, disse, poi la guardò teneramente e non parlò più riprendendo a camminare sul selciato bagnato di pioggia, con la sua abituale aria mesta, come se ancora nulla fosse successo.
Amava l’autunno, l’aria frizzante del primo pomeriggio che volge già al tramonto, il fumo dei caminetti accesi che disegna iperboli bluastre nel cielo, la certezza di un futuro sereno che nonostante tutto persisteva nella sua mente, ancora incredula di fronte al disastro che di lì a pochi giorni avrebbe dovuto affrontare.
Avrebbe perso anche quella casa. La minuscola proprietà dei nonni che resisteva tra gli ulivi da più di tre secoli sarebbe stata pignorata come tutto il resto.

Lei aveva intanto raggiunto il muretto a secco e un ciclamino solitario che ci era nato sopra, dentro, facendosi largo tra i sassi con le sue deboli radici. Le somigliava, così qualcuno le aveva detto tanto tempo prima, apparentemente fragile, colmo di insidie, selvaggio e spontaneo, non bisognoso di cure.
Rise, e guardò l’uomo attraverso la lunga frangia che le era calata sugli occhi come un sipario.  
Non vi toglierete mai di dosso l’idea della donna da sostenere e curare. Poi sospirò con forza, carezzando i fragili petali del fiore.
L’abitudine del maschio italiano a vedere la donna come una zavorra più che una compagna è dura a morire, disse ancora. Poi si voltò verso la campagna seguendo il cinguettio allegro di un passero.
Amava l’autunno, i colori caldi che la natura metteva a disposizione dell’uomo per contrastare l’arrivo del gelo e l’oscurità persistente delle giornate, gli stormi che solcavano il cielo bluastro e andavano a sud.
Le venne voglia di fare l’amore, quasi che il mondo intero potesse crollarle addosso di lì a poco e non potesse perdere più nemmeno un istante. Gli si accostò infilandogli la mano fredda nella tasca del giaccone e fermò la sua, che faceva tintinnare a ritmo regolare alcune monete. Poi si decise e lo baciò con foga, spettinando i suoi capelli radi, succhiandogli le labbra che sapevano di sigaro, le orecchie, stanche di ascoltare frasi consolatorie.
Andiamocene via!, gli sussurrò. Scappiamo, andiamocene lontano!, gli disse, il viso incredulo di lui tra le sue mani adesso calde, attive, incoraggianti. Quello che ti è rimasto, che riuscirai a tenere, lo porteremo via, all’estero, in oriente, dove vuoi tu. Lì si vive con poco e non avremmo nemmeno bisogno di lavorare.

L’uomo le prese le mani portandole sul morbido cachemire del suo maglione, sul cuore che pompava lento.
Le sorrise con gratitudine e non disse niente.
Non sarebbe mai fuggito, pensava, non avrebbe mai lasciato i suoi soci da soli a tamponare l’emorragia di quel fallimento, le sue figlie potevano ormai fare a meno di lui, certo, ma lui no, non avrebbe mai potuto fare a meno delle sue figlie.
E la collezione di pipe? Cosa ci avrebbe fatto con la sua collezione di pipe in Indonesia? E i cani? Non pensava ai cani?
Sorrise di nuovo e scosse la testa riprendendo a camminare verso la casa e le finestre che brillavano nel buio della luce calda del camino. Lei lo seguì calciando un sasso. Attese che caricasse altra legna nel camino e gli versò qualcosa da bere.

Sedette sulla poltrona, prese il libro dal tavolino e lo aprì dove aveva lasciato il segno, e come faceva ogni volta dacché andavano lì, come succedeva ogni volta da circa vent’anni, gli disse che quella poltrona era ormai da buttare.

giovedì 3 luglio 2014

Perdite

Sabri, operaio egiziano padre di sei figli, saggio e rassicurante come una quercia secolare, mi ripeteva che con questi cellulari, computer e derivazioni elettroniche avremmo finito col non ricordarci più nulla. Nemmeno il nostro nome.
Certo, pensai all’epoca, che dopo aver portato a mente monologhi di Corneille e fitti dialoghi di Moliere, tutti con tempi comici da rispettare, mi sarei ritrovata a svegliarmi ogni giorno madida di sudore nel mezzo di un incubo ricorrente: il “chi è di scena”, la platea piena zeppa di pubblico e io che non ricordo un bel niente. Nessun costume e un copione in mano, però senza titolo pieno zeppo di parole.
Oggi non sono convinta che le tecnologie tolgano capacità mnemonica, penso invece che liberino spazio della nostra mente, occupato in passato da numeri di telefono, indirizzi e nomi, oltre che da una grande quantità di nozioni scolastiche di cui non abbiamo mai saputo che fare: tipo l’estensione geografica di certi stati, il genere di coltivazione dei singoli Paesi, o la densità di popolazione che cresce ormai così tanto da doverla ricontare ogni giorno.
Numeri di telefono segnati prima sulla rubrica di casa e poi ricopiati con calligrafia fitta sull’agendina da taschino, come quella di mio padre, scomparso prima dell’era 1.0, e su cui trovai segnati soltanto quattro numeri, quelli che lui chiamava “vincenti”, i nostri, scritti sotto la “c” di cuore.

Io, a parte lo sforzo sovrumano fatto durante il periodo in cui lavoravo in teatro, recitando parti importanti per numero di battute ma anche per presenza in scena, sono per natura distratta. Dimentico tutto ciò che non rientra nelle mie priorità. Geografia, toponomastica e nomi, non mi sforzo neppure di ricordarli. Ci sono cose, come la matematica, per esempio, che non ho mai pensato neppure di studiare. Ricordo però alla perfezione facce, modi di dire, case, strade, cose dette, silenzi imbarazzanti.
Dimenticare, o meglio evitare del tutto d’imparare qualcosa che non mi sarà mai utile, è per me un esercizio naturale. Scarto a priori qualsiasi elemento possa occupare inutilmente spazio nel mio cervello.
Ricordo che una volta, con un tipo, uscimmo per fare delle foto. Era un bollente pomeriggio di agosto e tra villa Torlonia e quartiere Trieste passammo un pomeriggio felice. Ci baciammo anche, mi ricordo. Tornata a casa mi accorsi che non avevo infilato il rullino nella macchina fotografica.
Eppure, non ci sono foto e istanti di quella giornata che non ricordi ancor oggi.


Ci penso perché ultimamente ho incontrato qualcuno che era indelebile nel mio ricordo e che invece mi aveva dimenticata. Perché io stessa dimentico e perdo qualsiasi cosa, e dimenticanza e perdita vanno a braccetto. Se dimentico una persona, la perderò. Così come se dimentico di fare il backup al mio HD presto o tardi perderò il suo contenuto, come mi è successo alcuni mesi fa, perché come per la morte, si pensa che certe cose possano accadere soltanto agli altri.
Eppure, fatto salvo il dispiacere di aver perso file di racconti, foto (tutti gli autoscatti fatti durante la prima stesura di Justine 2.0) e migliaia di appunti, mi sono resa conto che, se da un lato il computer nuovo e completamente vuoto mi ha gettato nel panico, dall’altro mi ha ridato linfa vitale. Come se azzerando tutto, eliminando un passato d’imprese fallite e matrimoni e relazioni, di risalite mai seguite da discese ardite, mi fossi levata di dosso una pesante nube tossica.
Dimenticare può essere salutare.
A volte perdere qualcuno è una salvezza.
Rassegnarsi a ricominciare da zero per alcuni è destino, per altri, una giusta soluzione per fare di più e meglio.

L’attaccamento a ciò che produciamo e siamo, un cumulo di esperienze buone o cattive, può sembrare un’ancora di salvezza che, a guardarla da un altro punto di vista non è che un’inutile zavorra.