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mercoledì 29 maggio 2013

Essere Franca


Non ho mai cavalcato l’onda del lutto, ma questo di Franca Rame è un colpo molto duro. Quest’anno poi abbiamo perso tanti attori importanti, cantanti, critici, attrici soprattutto, donne dalla personalità imponente che ho visto tante volte sul palcoscenico e conosciuto nei camerini o alle feste. Maestri che ammiravo sin da bambina e grazie ai quali ho fatto scelte, scartato opportunità e preso strade sempre troppo impervie, ma assai più misteriose e affascinanti. Abbiamo perso voci, storie, esperienze che alcuni porteranno nel cuore, ma tanti altri no. Ed è un vero peccato.


Così, erano alcuni giorni che mi girava nella testa il nome di Franca Rame e del suo monologo “Lo Stupro” che ho riguardato proprio ieri, alla ricerca di spunti e idee, cercando di capire se la nostra condizione fosse nel frattempo cambiata oppure no, se la colpa è anche e ancora nostra, o soltanto della nostra supposta fragilità. Forse, come diceva lei, la colpa è della nostra forza perché, per usare le sue stesse parole, “la donna saccente rompe un po’ i coglions, meglio la cretinotta con la risata erotica...”.
I suoi monologhi non risparmiavano nessuno, nemmeno i “compagni” di allora pieni di complessi, di paure e di sensi d’inferiorità, comunque sempre un passo indietro, comunque e sempre da prendere per mano.


Sarà perché andavo a teatro ogni settimana con i miei e che poi il teatro l’ho fatto, ma io so chi è stata Franca Rame. Era una donna bellissima, tanto che lo stesso Fo ha raccontato molte volte la propria meraviglia nel ritrovarsela accanto.
Alta, un fiume di capelli rossi, gambe lunghe, seno giunonico, voce profonda e graffiante dal forte accento milanese, ha iniziato a calpestare le tavole del palcoscenico da bambina nella compagnia dei suoi genitori. Figlia d’arte nel vero senso della parola, la sua famiglia viveva di teatro dal 1.600, ha lavorato nell’avanspettacolo per poi immergersi nelle avanguardie e nel teatro politico e femminista.
Ed è proprio come femminista che ha pagato per tutte noi subendo, da un gruppo di fascisti e proprio a causa delle sue lotte e delle sue parole, uno stupro collettivo arrivato a sentenza ben venticinque anni dopo e dichiaro quindi prescritto.
Da Donna, compagna e femminista, Franca (un nome che le calza a pennello) tirò fuori da quell’episodio devastante un monologo che è rimasto nella mente di tutti noi e che oggi più che mai, a causa della recrudescenza di delitti e violenze sulle donne, ridiventa di urgente attualità.
La Rame aveva da dire tantissimo, e uno degli esempi di miracolosa onestà, è la lettera aperta che scrisse dando le proprie dimissioni da Senatrice dopo aver presentato diversi disegni di legge finiti nel dimenticatoio, come quelli per la regolamentazione dei collaborati dei Ministri – tutti pagati in nero- o dei militari impegnati in Iraq, Afghanistan e Balcani, deceduti a causa dell’esplosione di bombe all’uranio impoverito e di cui ancora oggi non si conoscono ancora le cifre, né si sapranno mai.

Di seguito un paio di brani per me esemplari del suo carattere combattivo, caldo, appunto, franco.

A volte mi capita di pensare che una vena di follia serpeggi in quest’ambiente ovattato e impregnato di potere, di scontri e trame di dominio.
L'agenda dei leader politici è dettata dalla sete spasmodica di visibilità, conquistata gareggiando in polemiche esasperate e strumentali, risse furibonde, sia in Parlamento che in televisione e su i media. E spesso lo spettacolo a cui si assiste non “onora” gli “Onorevoli”.
In Senato, che ho soprannominato “il frigorifero dei sentimenti” non ho trovato senso d’amicizia. Si parla... sì, è vero... ma in superficie. Se non sei all’interno di un partito è assai difficile guadagnarsi la “confidenza”. A volte ho la sensazione che nessuno sappia niente di nessuno... O meglio, diciamo che io so pochissimo di tutti”.

“Non intendo abbandonare la politica, voglio tornare a farla per dire ciò che penso, senza ingessature e vincoli, senza dovermi preoccupare di maggioranze, governo e alchimie di potere in cui non mi riconosco.                               
Non ho mai pensato al mio contributo come fondamentale, pure ritengo che stare in Parlamento debba corrispondere non solo a un onore e a un privilegio ma soprattutto a un dovere di servizio, in base al quale ha senso esserci, se si contribuisce davvero a legiferare, a incidere e trasformare in meglio la realtà. Ciò, nel mio caso, non è successo, e non per mia volontà, né credo per mia insufficienza”.
E chissà se è un caso il suo andarsene proprio all'indomani dell'importante approvazione della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. 
Mi mancherà molto Franca Rame. Credo che mancherà a tutti. Mancherà molto anche il suo sorriso e l'ottimismo, che serpeggiava tra una frase sarcastica e l'altra. E se non sapete chi è, vi prego, in nome della sua personalità e delle sue lotte per l’autonomia femminile, non ricordatela soltanto come la moglie di Dario Fo.  Anche perché forse, è stato Fo il fortunato marito di Franca Rame.

mercoledì 22 maggio 2013

La punizione


Foto: zvelosolex, H. Cartier Bresson

Glielo aveva detto di non tirare troppo la corda.
Dopo alcuni mesi era anche scomparso, e con un che d’infantile tipico di tanti maschi di potere, l’aveva prontamente bannata da tutti i social network.
Lui, un intellettuale di una certa levatura e fama, non poteva permettere certe alzate di testa.
Lei, aveva creduto gli fossero spiaciute certe foto oscene che gli aveva inviato tanto per alzare il prezzo. Per un cattolico di destra, si era detta, per uno con due matrimoni alle spalle e otto figli, forse, era troppo.
Invece era successo l’opposto. Quelle foto gli avevano tolto il sonno, e la sua impertinenza soprattutto, la sicumera con la quale gli si era rivolta nell’ultima mail, l’aveva fatto imbestialire del tutto, facendo sì che certe promesse di multipli orgasmi, svanissero del tutto tra rabbia prima e indifferenza poi.
Si erano rincontrati per caso molti mesi dopo.
Erano destinati, non c’era dubbio, e così dovevano aver pensato entrambi. Per la verità si erano urtati davanti a una libreria in centro, dove si teneva la presentazione di un saggio di un economista che conoscevano entrambi. Erano nel bel mezzo di un temporale estivo e lei per poco non gli aveva infilato l’ombrello in un occhio. Dopo averla riconosciuta, si era subito voltato dall’altra parte.
Così, in libreria si erano seduti lontani tenendosi d’occhio con la massima indifferenza.
Lei era single, piuttosto bella e soprattutto equilibrata: questo doveva aver pensato l’uomo, che non aveva alcuna intenzione di finire tra le grinfie pericolose di un’isterica a caccia di buoni matrimoni. D’altra parte, l’accordo era stato da subito quello di un lauto pagamento da concordare una volta in albergo, da calcolare in base alle capacità di lei, alla durata e al tipo di prestazione offerta.
Il problema era che lui le piaceva anche per la sua testa, era stato perciò che aveva preso tempo sperando almeno in una cena romantica o in una passeggiata notturna sul lungofiume. Una testa da fascista, certo, dei modi da ex picchiatore, forse, il livore tipico del bigotto che nasconde putridume d’altri tempi.

Così, al termine di quella presentazione alla quale aveva partecipato solo per farsi vedere, e dopo essergli corsa dietro per quasi metà di via del Corso, l’aveva fermato.
Dai, vediamoci!, gli aveva detto in un sorriso pentito. Da lì, esattamente a pochi centimetri dalla sua giacca di lino color caffè, aveva percepito un odore di camicia apprettata e lucido da scarpe, aveva osservato a lungo il viso rasato di fresco, le rughe, orizzontali e ben marcate sulla fronte, le labbra scure e leggermente serrate per l’imbarazzo.
Certo, le aveva risposto lui riprendendo a camminare a passo svelto.
Ma dove?, E quando?, aveva continuato a dire la donna standogli dietro come un cagnolino di piccola taglia che arranca dietro un padrone frettoloso e incurante.
Purtroppo stava già in basso. Lui aveva fatto scendere il suo prezzo e lei gli si sarebbe concessa col 70% di sconto.
Non era sua abitudine fare marchette, cioè... tre o quattro l’anno se capitava potevano far comodo. Alcuni diventavano appuntamenti fissi e si accontentavano di lunghe chiacchierate da mariti stanchi. Niente di che.

Ma lui gliel’aveva detto di non tirare la corda e stavolta, forse, la donna avrebbe fatto meglio a cambiare direzione e a fidarsi del proprio istinto, ad andare dall’altra parte del Tevere e tornare indietro.
Invece no.
In certe cose era come un maschio. Diventava curiosa e basta. Voleva vedere, scoprire, guardare cosa si nascondeva sotto la camicia stirata con sapienza, carezzare con la lingua la cicatrice che l’uomo aveva sul cuore, e che aveva intravisto tra i bottoni quel pomeriggio di pochi giorni prima, sotto la pioggia, in quel parlare pieno di pause e ritrosie sciocche. Voleva leccargliela a lungo e con amore quella ferita sottile.
Arrivata in piazza Zanardelli svoltò per via dei Soldati e poi per via dell’Orso.
A quell’ora del pomeriggio non girava un’anima, soltanto i suoi passi battevano sui sanpietrini in modo irregolare, e per evitare che il tacco ci finisse dentro, saltava da un lato all’altro della strada come una bambina che giocasse a campana.
Citofonò: troverai una sola targhetta senza nome, fai due squilli. Così le aveva detto e così lei aveva fatto.
Il portone si aprì: terzo piano, le disse, e riagganciò.
All’interno dell’androne buio faceva freddo. Una bicicletta legata a una grata di ferro e la luce fioca che illuminava appena le scale pendendo da vecchi fili pieni di ragnatele, le fecero subito un buon effetto. Le piacevano le case non ristrutturate che sapevano un po’ di muffa e di karma stantio, di storie.
Per non arrivare alla porta con il fiatone e con in faccia l’ansia del desiderio salì i gradini con calma. Quando bussò la porta si aprì appena, attese qualche istante che qualcuno la ricevesse, poi si fece coraggio e attraversò la soglia.
L’appartamento era al buio e appena ristrutturato. Si sentiva ancora l’odore di smalti, vernici e colle.
C’è nessuno?, disse portando la sua voce scura fino alla fine del corridoio.
C’è nessuno?, ripeté mentre rigirava la fibbia della cintura sottile che le stringeva la vita dell’abito di cotone leggero.
Vai così, che vai bene... disse la voce che proveniva dall’ultima stanza.

Era solo un’ombra. Un’ombra massiccia e severa seduta su una poltrona in un angolo. Non c’era nessun letto, soltanto quella poltrona e, al centro della stanza, una sedia di legno e paglia con sullo schienale delle corde. C’era anche una lampada a stelo, un liberty originale di ottone e vetro smaltato rosso e nero.
Accendi la luce, le ordinò l’uomo accavallando la gamba.
Lei lo fece.
Ora slacciati l’abito. Con calma se puoi, partendo dall’alto.
Da una parte si sentì fiera per quella scelta: un classico anni cinquanta, semplice e femminile con tanto di colletto tondo, smanicato e senza fronzoli, però aveva anche paura, temeva di non piacergli, che quelle foto fatte sotto una luce veramente giusta avessero eliminato i difetti naturali di un corpo quarantenne, e che a vederla così, invece, sotto una luce bianca, potesse fargli un effetto diverso, che potesse sembrargli meno “succulenta”, così come più volte l’aveva definita dopo l’invio di qualche scatto.
Rimase in attesa in quel cerchio di luce con l’abito aperto, mostrandogli un corpo quasi perfetto, non fosse stato per la muscolatura da ex ballerina e alcune cicatrici che brillavano sotto la luce artificiale della lampada.
Adesso vieni qui e portami quella corda.
Le indicò una corda sottile, ce n’erano altre più spesse e ruvide e altre, di diversi colori, che sembravano fili di seta.
Portala qui, ripeté l’uomo sporgendosi dalla poltrona e mostrandole una sagoma scura in cui erano appena riconoscibili il profilo severo e l’attaccatura dei capelli, alta sulla fronte ampia e abbronzata.
Lei gli porse la corda, ma non vide che lui le faceva cenno d’inginocchiarsi, infatti, le afferrò il polso fino a farla gemere.
Se sei venuta qua per farmi incazzare vattene subito!
No, no ti prego!, si affrettò lei in un respiro.
Va bene, allora voltati.
Così fece, e attese che le stringesse la corda ruvida attorno ai polsi, dietro la schiena.
Poi la voltò prendendola con malagrazia dal braccio magro e la mise in ginocchio.
La donna spalancò gli occhi chiari cercando di capire almeno che espressione avesse. Invece, ascoltò il metallo della cintura dell’uomo allargarsi appena e il cuoio frusciare, poi la cerniera scorrere lentamente e fermarsi in un punto esatto.
Fai il tuo lavoro adesso, puttanella.
E si tirò indietro appoggiandosi alla spalliera portando contemporaneamente la testa riccia di lei sul suo cazzo in erezione.

Era esigente esattamente come se l’era immaginato. Severo e duro. Imperturbabile alla vista delle lacrime opache che le rigavano il viso arrossato dal caldo e dall’eccitazione, da tutto quello sfregare e mandar giù ogni volta un po’ di più senza mai sollevare la testa, ingoiare, respirare o opporre le mani, che legate dietro la schiena non trovavano pace nel tentativo di una liberazione.
La tenne così per un tempo lungo, lunghissimo, tutto quello che gli serviva a godere tra frasi oscene mormorate e urlate sul suo bel viso.
Infine l’uomo si alzò e la tirò a sé per un braccio, le infilò la lingua calda nella bocca e la palpò a lungo e con gusto.
Si sistemò con calma e contò, depositandole sul davanzale di marmo della finestra, sette banconote da cento euro.
Ti è andata bene mi pare. Le disse standole di spalle. No?, aggiunse in quello che lei immaginò un sorriso.
Adesso vieni qui: ora arriva la punizione.
La donna era confusa e non capiva. La punizione? Quale? E perché? Si disse e gli disse.
La punizione per avermi fatto aspettare troppi mesi, per essere stata una vile troietta che se la tira, una piccola puttanella recalcitrante agli ordini.
Spalancò la porta di uno sgabuzzino buio e con forza ci spinse dentro l’amante. Aprì poi un temperino che brillò nel buio, e lo poggiò sullo scaffale più alto di quella che doveva essere una libreria usata dagli operai per poggiarci attrezzi e vernici.
Lei fece per uscire, ma lui le bloccò il passo con un gesto così brusco da farla cadere in terra.
Quando e se ti libererai, le disse ancora, dovrai cercare la chiave della porta blindata. Questo sarà il nostro nascondiglio, qui nessuno verrà a cercati.
Sentì i passi dell’uomo allontanarsi, aprire la porta pesante e aspettare un attimo, poi sentì la porta chiudersi e la chiave girare più volte.

Così, si disse la donna nel buio, avrebbe potuto ricattarlo anche per sevizie. Era un intellettuale, un libero pensatore come si definiva spesso, non un investigatore: il suo vecchio minidisk anni novanta nascosto nella borsa aveva sicuramente fatto il suo dovere registrando anche il minimo respiro. 

giovedì 16 maggio 2013

Deriva #29 Deriva della seduzione: il quarantenne

Prima parte...


Non pretendo di inserire qui dentro tutto lo scibile umano, per cui, tranquillizzatevi.


Il mio quarantenne fa parte di una razza particolare tra le tante, varie e sconosciute, che popolano l’italico paese. Ha vissuto il mito di Mazinga Zeta e, grazie alla sorella prepotente o alla compagna di classe di cui era innamorato, si è sorbito la serie completa della paffuta “Heidi”, dell’infermiera “Candy Candy” e dell’ambigua “Lady Oscar”.  Sempre a causa di certi Manga ha praticato molti sport, ma tutti male. Grazie al solito zio scapestrato ex sessantottino è dedito all’assunzione di cannabinolo, se sposato, rolla canne in fretta e di nascosto, se single ha toccato il fondo più di una volta e forse, è ancora nascosto sul fondo del barile (sempre quello, uguale per tutti) e continua a grattare.
Le statistiche lo dicono e io lo confermo: vive in casa con i genitori e ha davanti a sé un futuro assai oscuro. Non è colpa sua, semplicemente è venuto al mondo nel momento sbagliato, ha vissuto il boom economico da bambino su una Bianchi nuova di zecca, certo che la vita gli avrebbe riservato una maturità con posto fisso, in una casa equo canone. È come il figlio di mezzo: nemmeno la politica lo considera, non è né un giovane disoccupato né un esodato. Per lui, nessun decreto legge speciale né una parola d’incoraggiamento.

Se non ha avuto la fortuna di ereditare beni di famiglia, e lavori, e cariche, e colpi di fortuna, è la perfetta vittima sacrificale dell’era contemporanea che non timbrerà mai un cartellino. Il quarantenne dell’era di Twitter è l’invisibile.  Il “potevi dirmelo prima chi eri” se lo è sentito dire troppe volte da vecchi massoni amici di famiglia, che comunque, e nonostante sapessero chi fosse, non l’hanno mai assunto.
Non sa se sopravvivrà a una vecchiaia senza di pensione e il suo incubo ricorrente è quello di morire tra le amorevoli braccia di un’infermiera sadica in un ospizio per poveri, è perciò che se ne può fregare bevendo a più non posso.
Ha guardato nella tivvù in bianco e nero, i programmi dell’accesso e il pomeriggio dei piccoli con Paolo e Lucia Poli, Mariano Rigillo e Ludovica Modugno, ma ha vissuto tutto di riflesso: il rock, la nouvelle vague e l’ideologia comunista.
Sempre troppo giovane o troppo vecchio, è stato destinato al ruolo di spettatore. Ha guardato i fratelli più grandi prendere in pieno viso i cazzotti dell’ideologia post sessantottina, godere sfrenatamente della liberazione sessuale, fare attacchinaggio e vivere nelle sedi di Partito, i più piccoli, invece, li ha visti allontanarsi per il mondo a manifestare contro la globalizzazione. 
Trova un buon rifugio nel matrimonio o nella convivenza con una donna piena di volontà e dotata di posto fisso.

Il mio quarantenne (il MIO), sta a letto fino a tardi  e gira per casa alla ricerca della propria strada ascoltando musica a tutto volume. Ha ancora la Rock Band con la quale suona cover anni ottanta in una cantina ammuffita con gli amici di sempre che chiama con i nomignoli di un tempo: “Lurido”, “Scroccone”, “Plettro”,“Anticaglie”. Nato in un’epoca in cui l’allattamento era tabù, va su e giù per il web in cerca di grosse tette e teste femminili pensanti, ha provato un po’ tutte le paraphilie, ma anche se non lo ammetterà mai, va in cerca un amore tenero e di figli che diano senso alla propria esistenza.
Rassegnato e spesso depresso, soggiorna sui social network e crede grazie a essi potrà trovare una buona opportunità di riuscita: un giorno, chissà, forse. Ha la battuta pronta da liceale e ride spesso da solo di ciò che scrive.
Tecnodotato porta avanti una quantità imbarazzante di “flirt” e mezze storie che finiscono prima o poi nel nulla, senza scenate né pianti, dimenticate, e basta. Il fatto che abbia figli non gli impedisce di portare avanti le sue fantasie, anzi, certi oneri rappresentano una ragione in più per farlo.
Vive il menage coniugale come qualcosa che accade, un fatale incidente del destino che gli ha dato per lo meno una parvenza di autonomia. Da convinto femminista non sente la frustrazione di essere un mantenuto, comunque sospende il giudizio: è ancora troppo giovane per darsi del fallito e va avanti come un mulo a forza di speranza.
Tanto tempo libero gli offre l’opportunità di leggere, e lo fa con ogni cosa gli capiti tra le mani, compresi detersivi e riviste femminili. È un patito dei fumetti e conosce alla perfezione la storia di ogni disegnatore. Segue tutti i talk show mentre la consorte chatta con qualcuno e lui lascia perdere, rassegnato al più che possibile “chi la fa l’aspetti”. La sua rivoluzione comunque la fa sempre da lì, al di là del monitor con un gatto sulle gambe e una gran voglia di rinascere altrove.

Se lavora –qualche fortunato c’è- lo fa nel web, nella comunicazione e nei media (old & new).  Scrive tanto, di norma ha un blog, ma scrive anche racconti e romanzi dal sapore carveriano -almeno nella sintassi- da cui lancia invettive contro il mondo intero che non ha accolto il suo genio. Le donne, che descrive e vuole, sono depravate e bellissime, disposte a tutto e sempre pronte alla libidine: la propria, quella che non può sfogare su una moglie iper professionista e carrierista, la fidanzata del liceo, quella “meno troia delle altre” come diceva allora sottovoce all’amico di banco, e con la quale immagina di essersi “sistemato” per sempre.

Di solito si presenta in DM con un bel regalo: un brano da far accapponare la pelle tratto da un film made in USA, un piano sequenza in bianco e nero, che è ancora il più lungo della storia del cinema.
Intellettuale creativo e squattrinato o manager razionale e benestante, il mio quarantenne è sempre e comunque schietto. Lui non si accontenta della materia cerebrale digitale, vuole culi digitali e tette digitali, fianchi generosi e parole -possibilmente sconce- digitate con grande rapidità. Non prende vie traverse, non fa mille giri per arrivare al punto –quello di sempre-, digita in privato un chiaro “sei bella”, e basta. Un “sei bella” che è una constatazione, forse, ma anche molto di più.
Il quarantenne sorprende perché è in grado di sorprendersi.
Nell’attesa che il proprio destino si compisse, infatti, ha imparato ad amare altro dell’esistenza. È un fermo sostenitore della “non volontà” (noluntas) e mormora, mentre si carezza la chioma ancora per poco fluente, che mai come oggi, in un mondo dominato dalla voglia di vivere in senso materiale, soltanto estraneandosi dal desiderio di riuscire a tutti i costi ci si potrà salvare.  Schopenhauer aveva ragione.

Il quarantenne moro e dalle lunghe mani che adesso, dal salone inondato di sole primaverile di casa di sua moglie, scorre le foto dell’anonima navigatrice bruna, ama confessare e confessarsi. Vuole dar  fondo rapidamente alle parole per passare ai fatti: due corpi nudi davanti a un monitor, la replica esatta di un sé adolescente e della ragazzina pudica accanto, che vanno su e giù di mano e ognuno per proprio conto.
Solo che in quel tempo in bianco e nero almeno un bacio ci scappava, c’era la mano di lei nella sua un po’ sudata, c’erano le parole, che avevano senso perché infilate sottovoce tra due pause, che avevano un suono perché nate dai silenzi imbarazzanti e lunghi.

Che tutto questo rincorrere sconosciute tra i pixel sia molto triste è chiaro anche a lui, anche in questo momento, mentre la vede on line e ha una voglia mostruosa di fare cose oscene, almeno di digitarle. Perché il MIO quarantenne vuole amare, in fondo, pensa, è una delle poche cose che ancora si possono ottenere senza pagare. 
Ha bisogno di una donna che corrisponda, almeno nella PIC, al suo modello ideale, a metà tra una madonna e una pornodiva. Che ascolti i Police vecchia maniera assieme a lui, a quel ragazzino imberbe che non aveva ancora scoperto tangentopoli, e che sperava di poterla almeno iniziare una strada che da lì, da quell’infanzia in bianco e nero, gli pareva larga e assolata.

“Sei bella”, ha appena digitato il mio quarantenne alla coetanea che, dalla scrivania altrettanto assolata di uno studio legale, arrossisce appena.
“Anche tu” risponde subito lei, che da un bel po’ assapora e “stellina” i suoi tuit maschili e amari, così simili al proprio stato d’animo di moglie inappagata e di anima in pena, al centro di un’esistenza in perenne equilibrio tra perfezione e noia.
I due si corrispondono da un po’ , silenziosi e timidi scorrono le rispettive TL in cerca di segni e di tuit premonitori.
E se lui le domanderà qualche scatto hot, sarà solo per abbeverarsi un po’, e di certo non si fermerà lì. La inviterà nel proprio romantico e luminoso pied a terre, un boschetto alle porte di Roma, infrequentabile soltanto dopo la pioggia quando ci si va per funghi.


venerdì 10 maggio 2013

Morire di Gioia




Era normale quell'attesa anzi: potrebbe anche non arrivare!, si disse l’uomo ordinando con un breve cenno il secondo drink. Poi ruotò un paio di volte con gesti decisi il posacenere già pieno di cicche, e si mise ad ascoltare il tizio che cantava un intonato medley di pop inglese.
Non la vedeva da oltre un mese, erano passati esattamente trentasette giorni dall’ultima volta che l’aveva incontrata. Dopo, era sparita nel nulla cancellando account su social network –numerosi e dai nickname significativi- e cambiando numero telefono.
Pensare che ci aveva messo una vita a ottenerlo, il numero di cellulare, si disse l’uomo in penombra mentre di nuovo la voce del cantante veniva inghiottita dal rumore di fondo del locale, e lui cercava di riprendere possesso di sé, del suo cuore, almeno di una fetta piccola piccola di quell’organo vitale, che all’idea di rivederla pompava a più non posso.
Da tre anni impazziva per Gioia.
Incredibile!, e scosse la testa per un po’, passando lo sguardo chiaro sulla tovaglia dozzinale e sugli arredi anonimi di quel piccolo ristorante sul mare.
Era incredibile che una donna con quel nome si portasse addosso un carico così importante di sventure: le volte in cui gli aveva sorriso poteva contarle sulle dita della mano. Una volta in barca, quando tirò su una roba bella grossa, sul Monte Bianco davanti al sublime, al Museo d’Orsay davanti a un Manet, e a Viterbo, quando gli concesse di passare la Pasqua assieme e un microscopico bimbetto bruno vestito a festa, durante la processione le aveva abbracciato le gambe scambiandola per la madre.
Per il resto del tempo, Gioia era sempre imbronciata e scontenta. Normalmente spariva prima dell’alba e senza salutare, almeno così succedeva le rare volte che restava da lui dopo il sesso. Nemmeno i viaggi, che l’uomo organizzava senza risparmio di energie e denaro, lasciavano trasparire in lei tracce di entusiasmo, di curiosità, per non dire di gioia.
Gioia. Chissà com’era da bambina, si chiese concentrandosi sul drink e sui cubetti di ghiaccio che si scioglievano sotto il suo sguardo.
Non sapeva niente di lei. Viveva sotto falso nome da sempre. Che poi poteva chiamarsi anche Anna, Antonella, Francesca, Alessia.  Roberta. Cambiava città e abitazione di continuo, look e colore di capelli. Perfino per lui era stato difficile rintracciarla, e sì che di latitanti ne aveva catturati parecchi.
L’uomo diede un’occhiata al display del cellulare come per un’abitudine involontaria, senza ansia né aspettative, cercando di non fermare il tempo con un “non è detto che venga” che l’avrebbe gettato nel panico. Il fatto che fosse anche ritardataria era un buon calmante per il bruciore che già gli infiammava lo stomaco, la ferita che si faceva più profonda ogni volta che entrava in contatto con lei. Anche se non lo ammetteva, passarci sopra e lasciar correre era difficile. Lasciare che quella donna nemmeno bellissima rimanesse del tutto indifferente al suo fascino era del tutto inammissibile.

Fu la vibrazione del cellulare a salvarlo dall’angoscia nascente.
Ma non rispose e mise in mute, così come non rispose alla chiamata seguente e all’altra ancora.
Era sempre lei, la solita, quella di cui nemmeno ricordava il nome e che per una scopata gustosa, ma non irrinunciabile, gli si era attaccata alle ginocchia come una martire e non lo mollava più. Una volta se l’era ritrovata in commissariato con una falsa denuncia di stupro in mano. Urlava che doveva assolutamente conferire con l’Ispettore tal dei tali (ossia lui) altrimenti sarebbe andata via senza firmare. E prese per il culo tutti, psicologo compreso. Gli fece una gran pena vederla in preda a quel vulnus passionale, l’odore acre e lo sguardo temibile, ottuso e impenetrabile, ma d’altra parte lui aveva messo bene in chiaro la faccenda. Ma niente da fare.
Un maschio single, affascinante e oggettivamente bello era ovvio ne avesse a grappoli. Se poi faceva un mestiere misterioso e un’esistenza tutta segreti e azioni pericolose, indagini e pedinamenti... e si specchiò nel display buio del cellulare.
Andava fiero della sua collezione di femmine, come le chiamava solo e soltanto riferendosi all’aspetto più pittoresco del termine, senza malizia o sessismo, anche se poi, in fondo in fondo, non ci aveva mai creduto alla presunta parità raggiunta, e naturalmente sorrise tra sé, mentre, per un’improvvisa accensione del desiderio dovuta forse al collage di sorrisi femminili che gli era passato per un istante nella mente, scorreva con sguardo da profiler le donne sedute ai tavoli.
Era stato per quel desiderio ossessivo di scoprirle prima che fossero nude che aveva deciso di fare l’investigatore. Solo per quella ragione –che anche il padre considerava ottima- aveva preso il massimo dei voti in psicologia. L’idea che bastasse un solo gesto o uno sguardo a svelare la vera natura di un individuo lo mandava in estasi.
Tutta la sua vita ruotava attorno a quell’ossessione, la preparazione atletica (mens sana in corpore sano), la meditazione: camminata, zazen, steineriana, arti marziali e alimentazione.
L’uomo in giacca di pelle nera, che poggiava e sollevava il cellulare dal tavolo facendogli fare casuali piroette tra le dita, curava ogni aspetto di corpo e mente e le donne, facevano parte integrante dell’esercizio quotidiano, incidenti compresi, ossia tutte quelle che non si arrendevano alla realtà dei fatti, e che in guanti di lattice si prodigavano per casa già dopo la prima scopata, assottigliandosi di giorno in giorno per quella brutta abitudine di voler esserci sì, ma senza disturbare.
Invece lui avrebbe dato qualsiasi cosa per trovare una donna che gli fosse di peso, che gli togliesse il respiro, che lo facesse allontanare per un po’ da se stesso a e da quella ricerca costante di perfezione. Avrebbe perfino svenduto la sua collezione di scacchiere per una che avesse il rumore dentro, naturale, potente come la risacca dell’oceano, pur di metter via agenda e telefono, di dimenticare qualunque cosa per un paio d’ore. Per una come Gioia, per esempio, si sarebbe fatto anche ammazzare.
E adesso che quella strana emozione era diventata una leggera ansia, percepì un pericolo imminente uno di cui ancora non conosceva né entità né natura del danno: era l’effetto “ferita” procurato da Gioia, dal suo pensiero e dal suo ricordo!

Prese il telefono con aria accigliata, scrollò un paio di volte il “registro chiamate” e lo rimise sul tavolo, poggiandolo con cura e cercando poi la simmetria con tovagliolo e forchetta.
Domandò il terzo drink e si avviò in bagno.
Si diede uno sguardo nello specchio dalle luci oscene e andò a pisciare. Mentre ascoltava il gocciolio irregolare – il proprio e del tizio nel bagno accanto- immaginò che al suo ritorno avrebbe visto Gioia seduta al tavolo, anzi no, ancora in piedi, abbracciata come sempre a qualcosa di caldo e pesante anche d’estate, e alla sua malinconia, al freddo onnipresente che le faceva tremare appena il labbro. Vestita come sempre in pantaloni classici e camicetta, niente di speciale a parte l’aria da eterna scontenta, lo sguardo diffidente e duro, le labbra piccole e pallide. Niente di speciale a parte quel fragore di onde che lui sentiva risuonarle dentro e che s’infrangeva in uno sguardo per lo più immobile e assente.
In realtà poteva anche essere desiderio, quello.
In realtà sapeva benissimo di cosa si trattava, ma soltanto pensarlo che un giorno Gioia l’avrebbe voluto sul serio, gli procurava un dolore ancora più intenso che la sua assenza. Amava i silenzi punitivi della donna, le parole dure che uscivano dalla sua bocca senza nemmeno assumere un’espressione, un colore, una tonalità appena più alta, un volume poco più forte, come non fosse degno nemmeno di un suo insulto. Era quel senso d’impotenza che lo teneva ancora in vita, che gli dava la certezza di non poter riuscire in tutto, della propria natura fallace.
Solo se si sa di poter perdere si vince, si ripeteva sempre. Forse glielo diceva suo nonno, o il padre, non lo ricordava. O forse l’aveva letto su uno di quegli orrendi manuali del perfetto seduttore.

Domandò ancora un drink che erano passate le undici e venti. Un’ora di ritardo non era un record per Gioia...
Decise comunque che dopo quel drink se ne sarebbe andato. L’ultima stranezza di Gioia era stata quella del numero privato: e fine della discussione, gli aveva detto. Se vuoi è così altrimenti niente!, aveva ripetuto la donna guardandolo da sotto in su come faceva sempre, con lo sguardo annoiato, le gambe accavallate come un maschio e la vittoria già in tasca.
L’ultima volta che ne avevano discusso, aveva un baschetto rosso, che risaltava tra il mare scuro come la pece e i suoi capelli. In realtà era lui che spiegava le sue numerose ragioni mentre lei si limitava a scuotere la testa come una ragazzina cocciuta.
E di nuovo guardò il display del cellulare e il ghiaccio nel drink.
Quando domandò il conto era quasi mezzanotte.
Quando, per eccesso di velocità e alcol, l’uomo sfondò il guard rail per morire sul colpo, era mezzanotte e un quarto.





sabato 4 maggio 2013

Deriva #28 Deriva della seduzione: il cinquantenne

Quarta e ultima parte...


Quel “Dimmi...” significa attesa e asservimento. È un uomo che la guarda scomposto al di là del tavolo, e che tra i rimasugli di una cena lunga e piacevole, le domanda di parlare ancora e di non fermarsi mai. È un uomo assetato, che vuole scoprirla anziché mettersi in mostra. Uno che, nonostante i mille impegni da uomo rampante, manager, giornalista, scrittore, parlamentare o ex comunista, vuole scavare in lei per trovare finalmente una fonte dissetante, labbra che dicano cose intelligenti, certo, ma che lui tra poco impegnerà in altro, fra meno di un quarto d’ora, forse, nel suo bagno pieno di specchi.

O più probabilmente non è nulla di tutto questo. È plausibile, invece, che il cinquantenne abbia digitato quel “Dimmi... ” così caldo ad almeno altri tre contatti, e ora aspetta la risposta più in linea con il proprio stato d’animo. Più che sapere vita, morte e miracoli della tizia in questione, l’uomo ha bisogno di frasi sibilline che lo distraggano per un po’ dalla noia che se ne sta aggrappata alle sue giornate e che da anni assedia la sua vita coniugale: tranquilla, perfetta, apparentemente sana.
La relazione liquida ha su di lui lo stesso effetto benefico che le domeniche della sua infanzia passate in campagna, ore di svago consumate tra il pigro dondolio dell’amaca, corse a perdifiato nei campi inondati dal sole e la certezza, rassicurante, che nessuno l’avrebbe mai abbandonato lì da solo.  Quei DM (direct message), rari e brevissimi, sono la meritata conclusione di una lunga giornata di lavoro, il cioccolatino fondente che accompagna il Brandy appena versato e che ancora fluttua pastoso a pochi centimetri dalle sue dita, nel bicchiere giusto, proprio lì accanto a una pila di libri, primo tra tutti “Massa e Potere”, ultimo, ma soltanto per caso, “L’uomo senza qualità”, volume primo, edizione Einaudi, copertina color carta da zucchero.
Una relazione liquida deve avere lo stesso sapore di una gita al lago per la gara annuale di pesca. Breve, divertente e non dispendiosa. Una storiella on line ha lo stesso effetto relax di un’andata al cinema, ma evitando traffico, dispendio di denaro e nessun commento di sua moglie (o amante) durante la pizza post film nel solito locale affollato.

Il nostro cinquantenne rampante ha conosciuto bene il tempo analogico e mai e poi mai tornerebbe lì, anzi, ci pensa con orrore: appuntamenti tediosi con la tizia sbagliata, soldi spesi a palate per sperare in una scopata che si rivelava spesso algida e brevissima, l’opera omnia di Fassbinder per rimediare quella di sinistra –che si diceva normalmente più generosa, che usava la pillola e che al mare faceva vedere le tette.
Con il digitale l’uomo moderno mette fine all’incubo del “pre”, a tutte quelle chiacchiere che raramente si risolvevano al primo appuntamento, e significavano: “dobbiamo conoscerci meglio prima di farlo”.
Farlo... sì.
Che poi è anche una bella fatica, oggi soprattutto, pensa l’uomo tamburellando sulla scrivania un vago ritmo d’impazienza, oggi che le donne si sono fatte più scaltre e raramente la danno via per niente. Farlo... sì, è una parola con queste che sono così ben preparate, pensa l’uomo, tamburellando adesso un ritmo più sincopato al pensiero di certe bellezze aggressive che cercano la prestazione alternativa, quella sadomaso magari, una performance dalle mille posizioni cui lui, forse, non si sente più adeguato.
Ma finalmente non è più così, conclude l’uomo sorridendo (forse, credo, così mi pare di vedere da qui).
Ora si può liberamente sognare per mezz’ora anche grazie a un significativo “Dimmi...”, cui potrebbe seguire un di lei un politico “di questi tempi cosa vuoi che ti dica”, un pragmatico “avrei troppe cose da dirti, ma non in centoquaranta caratteri”, un simpatico “è una parola... ”, un cameratesco “inizia tu che a me viene da ridere”, un passivo “suggerisci tu il tema”, un creativo “facciamo il gioco delle frasi spezzate”, un pudico “non amo le confessioni”, un romantico “se tu fossi il custode dei miei segreti!”, un sibillino “vuoi che ti dica quanti amanti ho avuto”, un sensuale “però tu tienimi per mano”.
Sono passati sì e no dieci minuti e venticinque secondi dall’inizio della seduzione e l’attesa si è fatta rovente: il tempo digitale passa più in fretta, brucia le tappe, e spesso si consuma in un istante con una sveltina mentale che si conclude per azzeramento naturale di argomenti.

La donna, dall’altra parte della città e forse dello stivale, continua a guardare Zombie in mute e aggiunge un po’ di salato al dolce.
Nel frattempo, infatti, -quello giusto per un’attesa da social network- è corsa in cucina per metter fine a un serio attacco di fame nervosa. Le aspettative: villa a Capalbio con servitù, barca a Porto Venere e colpi di estetista e di sole necessari, le hanno scavato un tunnel anche nello stomaco. 
Mortadella e birra saranno la sua fine!
Mi verrebbe da dirle di stare attenta, urlarle di farsene una soltanto: l’effetto ebbrezza “doppio malto” potrebbe far seguire a quel “Dimmi... ” una serie di pericolose, ma soprattutto noiosissime confessioni.
La prima: il racconto particolareggiato della propria infanzia triste. In centoquaranta caratteri diluiti in venti DM (pieni di refusi dovuti a emozione e fretta), la quarantenne dall’aria distratta potrebbe distillare, per esempio, l’episodio del cugino di terzo grado, il terribile Ivan, che pare l’avesse importunata in un campo di pannocchie.
La seconda: gli amori passati, sempre troppi per il finto progressista attempato, che confonde passionalità con leggerezza, curiosità con imprudenza e coraggio con aggressività.
La terza e temibile ipotesi: la storia del suo primo matrimonio. Perdendosi in quella saga familiare che sa di telenovela, la donna inciamperà in frasi retoriche sulla fiducia tradita, perdendosi tra i labirinti della psicanalisi da spiaggia, cadendo infine, e rovinosamente, in un buon numero di luoghi comuni certamente mal visti dall’intellettuale.
Ma non sarà così.
La mia Calipso duepuntozero, che tesse giornalmente on line il proprio desiderio di amare, digiterà qualcosa che non lascerà andare così facilmente l’Ulisse postmoderno, che aspetta impaziente dall’altra parte del monitor.
Perché il sogno è sempre una zattera resistente sulla quale azzardarsi a solcare l’ampio oceano del sesso virtuale. Nella narrazione onirica, cui non dovranno mancare particolari piccanti, la donna potrà far passare un’immagine di sé arrendevole ma anche forte, colta ma non più di lui, pragmatica sì, ma assai romantica, sicuramente impudica –quel tanto che non lo spaventi- e passionale al punto giusto. Tra degli incauti ma funzionali “le tue mani grandi”, “la tua bocca sanguigna”, “il tuo sguardo severo”, “la tua voce sensuale”, la nostra cacciatrice di cuori lo terrà attaccato alla tastiera per almeno un’ora buona, lo stordirà con l’analisi di due o tre immagini simboliche, e farà sì che si addormenti accanto a sua moglie con un largo sorriso sulle labbra, e senza alcun senso di colpa.
Tutti quei particolari femminili visti in foto e certe risposte piene di sospensione faranno sì che possa lui stesso completarne il ritratto.
Quanto durerà?
Sicuramente non più di un attimo, il tempo che servirà alla curiosità del maschio di esaurirsi del tutto, e finché il desiderio che lei avrà d’incontrarlo non diventerà molesto tanto da meritare un definitivo BAN (cancellazione del contatto). Come se al di là di quell’antro oscuro e ancestrale ormai svelato, non ci fosse niente di più che una donna uguale a tutte. Come se al di là di qualche PIC un po’ hard, non ci fosse più niente da scoprire.
Se così non sarà, gioirò per loro, per un amore clandestino nato tra i pixel e finalmente consumato tra le lenzuola umide di saliva, sperma e ottimo champagne.

mercoledì 1 maggio 2013

Deriva #27 Quando un bel social diventa un sanguinoso campo di battaglia


Ad agosto la mia #derivaditwitter (minigalateto anti cafone) compirà un anno.
Quando scrissi il primo pezzo provai un brivido intenso pensando che certamente, la maggior parte dei tuitteri non l’avrebbe capita, e che per essa mi avrebbero anche insultata. Così è stato, è, e sarà.  Ma non potevo lasciare inutilizzati gli anni passati con le mie nonne tra circoli velici e case ottocento, dove vecchie ingioiellate che sapevano di antico, si riunivano tra mille convenevoli e riti per giocare a qualcosa, non potevo non raccontare l’esperienza accumulata tra feste esclusive in case da sogno e Boutique di gioielli in via dei Condotti. La mia missione è sempre stata quella di osservare e raccontare. Lo facevo quando recitavo e lo faccio oggi, mentre provo a restare a galla in questo mare di squali e di merda, di pettegolezzi e di piccole mafie, materia prima di cui è composta la nostra esistenza. Viviamo in una società classista, e che non lo si voglia accettare mi fa ancora più paura.
Non c’è da offendersi, ma soltanto da prendere atto che se c’è qualcuno che scrive e qualcuno che copia vuol dire che non siamo tutti uguali. C’è chi crea e c’è chi ruba. Che poi sono gli stessi che pur di fare una battuta o di umiliare pubblicamente uno sconosciuto a proprio vantaggio, sarebbero disposti a vendere la propria madre. Insomma come ripeterebbe mia nonna cresciuta in collegio svizzero e vestita soltanto Chanel, Twitter è ormai “alla strada”. La violenza è così diffusa, che anche chi è in possesso di sale in zucca si offende per un nonnulla. Sarà colpa della dipendenza da social network che forse ci opprime con strane ansie da prestazione, ma assisto a uscite di senno clamorose. Come la tizia, che dopo un anno di MIEI RT e di MIEI #FF, è andata in bestia per un mio tuit innocente, e certamente non rivolto a lei che grazie a dio nemmeno conosco, e che ha iniziato a farmi la guerra scrivendo TUIT senza menzione ma evidentemente pieni di astio e livore –del tutto gratuito- verso la mia persona. Bannata subito. Eliminata e senza spiegazioni. Dimenticata con la stessa rapidità con la quale l’ho conosciuta. Chi aggredisce a quel modo e senza una ragione seria ha veramente bisogno di una buona vacanza al mare. Dimentico con molta rapidità il male che gli altri mi fanno e pago a vita la mia disattenzione di un attimo.
C’è ancora chi s’infuria nel non voler ammettere che Twitter è di fatto un mezzo diverso da FB e diversamente va trattato, ma contemporaneamente soffre –senza ammetterlo- di avere pochi follouer, e si vendica insultando di continuo chicchessia, come chi si ostina a non dare il Follou Back per non avere sotto gli occhi una sequela di tuit insulsi e volgari. Non c’è bisogno di salutare la TL, di avvisare cha andiamo e torniamo dal lavoro, che mangiamo e andiamo al cesso. Ve lo immaginate il tizio al Party nell’attico che si affaccia in salone annunciando a tutti il proprio arrivo?
Io esprimo la mia opinione e basta, ed è ovvio che tu sei libero di fare come ti pare, e non dobbiamo nemmeno dirlo ogni volta: è implicito. Ma non lamentarti del se poi ti seguono in dieci. Fai la stessa figura del tizio vestito da Sioux alla festa in maschera con tema “Pirati dei Caraibi”, se sei vestito fuori tema è un problema tuo, non sono gli altri a doversi adeguare a te. Io non mi adeguerò mai alla maleducazione altrui. La TL scorre, come ho scritto un giorno dovrebbe essere il nastro trasportatore dei nostri attimi. Magari attimi belli, poetici, significativi. Ma molto probabilmente gli attimi di tanti di noi sono fatti soltanto di questo: del ruttino del bimbo e di scarpe acquistate, di parcheggi da trovare e di battute volgari.
Così come io sono pur libera di non volerli leggere questi attimi o di denigrarli, libera di non trovarli interessanti e di voler rimanere a guardare il mio cortile di magnolie piuttosto che una discarica di parole inutili, di giudizi su un politico o un altro digitati alla meglio, letti su tuit altrui –i post sono troppo lunghi perché si vada oltre il titolo. Personalmente voglio leggere tuit di qualcuno che ne sappia più di me, e non per sentito dire, e non eco di eco di qualcosa che alla fine non ha più nemmeno un senso. Twitter ha dato a chiunque la possibilità di sparare. Si prende di mira un profilo e si sparano parole.
Non si dice che ferisce più la lingua che la spada? Voilà. Ci si sfoga così della frustrazione accumulata, si puntano i piedi sul fatto che ormai la democrazia è partecipata, ci si elegge da soli a statisti e a grandi esperti di Costituzione. Con la scusa della mala politica, dei ladri e dei corrotti a Palazzo, chiunque si sente in diritto di vestire l’abito del vendicatore mascherato e di dare colpi di fioretto alla cieca. Con la scusa che non esiste meritocrazia chiunque, si sveglia e s’incorona Re, chirurgo, filosofo, intellettuale e attore. E guai a negarla o a metterla in discussione la potenzialità creativa altrui.  Guai a dire che magari si dovrebbe anche studiare, che forse per fare certi mestieri almeno Molière bisogna averlo letto, sapere qualcosa sul Teatro d’avanguardia o sulla commedia dell’arte, sull’uso del corpo o della voce.
Oggi non servono più accademie, non più Maestri, nessuna guida è necessaria: almeno così mi è capitato di leggere sul tuit di una ventenne. Siamo una popolazione di uomini e donne fatte, di persone che possono fare a meno di chiunque, tranne che di se stessi. Ebbene per me non è così.
Ci sono persone che ne sanno più di me, tante. O persone più spiritose di me, tantissime. E grazie a dio è così, se io fossi il massimo della conoscenza, saremmo messi malissimo. Ma ormai non è più importante scrivere tuit sagaci. Non li rituitta più nessuno. La massa di quelli che ti fottono il resto, il posto e magari anche la moglie, sono tutti on line con la propria sicumera da brutti ceffi.
Twitter è diventato un posto troppo chiassoso per me. Non mi piace il livore che leggo ogni giorno. Battaglie che esplodono per amore, per fede politica ma anche per sciocchezze, e si consumano tra una TL e l’altra rosicchiando le nostre energie e i nostri attimi migliori. Strategie di guerra, alleanze, pettegolezzi in DM, Tuit diretti chiaramente a qualcuno, ma che vigliaccamente non viene menzionato. Riferimenti chiari a “quella troia” a quel “bastardo” a “quel figlio di puttana” e che si traducono in un bla bla bla velenoso che non porta a niente. Ma io mi domando: come faccio a odiare qualcuno che non conosco? Buona giornata, buon 1° Maggio. Io vado al mare.