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venerdì 28 settembre 2012

La deriva di twitter 2





Nel 2.0 il tempo scorre rapido.
E se il tempo virtuale possiede la preziosa facoltà di renderci immortali, ha anche il potere di farci perdere di vista la nostra, assai più preziosa, Timeline analogica.

Nelle ultime settimane, in troppi tacciono ostinatamente.
Se ho bisogno di silenzio, vado a far visita al profilo deserto e lindo di qualche amico scrittore che, sopravvissuto agli ultimi mesi d’imbarbarimento del social media, è scomparso.
Anche Emanuele Trevi lancia la sua invettiva: Intellettuali!, evitate di frequentare tuitter e feisbùc. Franzen, mesi fa, aveva già messo sull’avviso i suoi colleghi, e parafrasando il titolo del romanzo di Parec “La scomparsa in cui non viene mai usata la lettera e”, aveva tuonato: esprimere un parere in centoquaranta caratteri è come scrivere un romanzo senza mai usare la lettera “p”. Infatti, i tuittatori a puntate continuano a marciare, fieri di aver trovato l'escamotage che come sempre salva capra e cavoli –la loro incapacità di sintesi e la possibilità di esprimere comunque il proprio fondamentale punto di vista.

Comincio a pensare che certi intellettuali abbiano ragione.
Sono passati appena due giorni dalla vicenda che #Sallusti, inviso a tanti ma per alcune ore martire della libertà di stampa, è già scomparso dai TT, così come lo scandalo della Regione Lazio e i lazzi su Fiorito detto Batman. Soltanto ieri sembravamo prossimi alla rivoluzione e oggi è tutto un “Madrid è in rivolta e in Italia si fa la fila per l’IPhone5”.
Perché l’italiano medio un po’ ci tiene a dare di sé l’immagine del fancazzista qualunquista, anche se poi s’incazza duro quando a brutto muso gli fai notare che, se tanta gente è impegnata a trovare Tuit arguti, chissà chi è che lavora.
In fondo, e nemmeno tanto, siamo affezionati all’Albertone nazionale e ci teniamo a incarnare il tipo “furbo” e un po’ imbroglione ma tanto tanto tenero e creativo, l’impiegato che fa timbrare il cartellino al collega e che poi si rivolta indignato all’accusa con il vigliacco: nun sò stato io.
Ed è lo stesso che lotta strenuamente per difendere il proprio indifendibile punto di vista e si ostina a voler avere l’ultima parola, come se la divergenza d’opinione fosse una colpa anziché un motivo di confronto costruttivo e di distanza dalla fottuta omologazione.
Così, l'invettiva verso le voci soliste diventa un'univoco "ma chi cazzo sei", che ci libera in un sol colpo dal senso d'inadeguatezza al mezzo e finalmente, in massa, possiamo dire no al pensiero diverso.

Il “devi pensarla come me altrimenti non hai capito” è lo streptococco del consenso che sta attaccando anche twitter. Così come il “botta e risposta” infinito tipico di “faccialibro” e che produce conversazioni inutili e fastidiose per chi scorre la TL in cerca di notizie o di argomenti persuasivi su una questione di bruciante attualità.
Non passa di moda, invece, l’illusione puerile che esibire la propria cultura letteraria alla grande casa Editrice voglia dire che il proprio manoscritto non sarà cestinato e che un Editor illuminato si dirà: la ragazza legge, sicuramente sa scrivere da dio. Così come è sempre in auge il defollow immediato a chi non si “degna” di seguirci o il collettivo #FF o quello generico all’amore e simili amenità.
Ed è così che al mattino facciamo la conta di chi non ci segue più ma senza mai, per carità, domandarcene il motivo.
Ciò che sembra tramontato del tutto, e grazie all’intervento dei soliti neofiti che della netiquette non sanno che farsene, è il rituit. Perché fa più figo copiare e tuittare a proprio nome, tanto, pensa il ladro di copyright, un plagio di centoquaranta caratteri che vuoi che sia.
Così, la mancanza di originalità porta all’esaltazione del singolo che, se scoperto, risponde con il sempre più presente “sticazzi” e ti defollowa con un clik o si chiude per un po’ tra le spesse mura del suo profilo privato.

Perché siamo sempre quelli che votano Berlusconi e poi lo insultano al Quirinale in una notte di birra a fiumi e di liberazione, quelli dell’etica esibita in un post che parcheggiano in doppia fila, quelli della ricerca di notorietà a tutti i costi perché se così fan tutti posso farlo anch’io. Perché alla fine è sempre la “baumaniana” liberazione individuale che la fa da padrona. Il 2.0 ci ha svegliati in un incubo, in un mondo sovraffollato di idee spesso più intelligenti delle nostre. Ci siamo addormentati in un pacifico e disabitato newsgroup 1.0 e ci siamo ritrovati in un mondo pieno zeppo d’identità, e così soffocante da costringerci a voler superare quotidianamente il nostro limite alla ricerca del consenso altrui.
Perché se da un lato vogliamo a ogni costo essere eletti numi tutelari di un pensiero originale, dall'altro abbiamo una paura fottuta di rimanere da soli.

mercoledì 26 settembre 2012

Teresa e il rientro da Lisbona










Tra Polverini, Fiorito e i soliti scandali



È vero son tornata e mi son già rintanata
mi è bastato sapere del caos della Renata,
Lusi è in convento a pregar sui suoi peccati
i Greci stan per essere alla fine affossati.
Fiorito ha una faccia di cui ti puoi fidare,
oggi con la coca puoi anche arrotondare.

Sapeste che bellezza l’aria che c’è oltralpe
dove i cittadini non son ciechi come talpe,
non vogliono vedere i lor diritti calpestati
e noi restiamo qui a guardar pietrificati,
immobili in attesa che qualcosa cambi
mandare via i politici e gli assurdi scambi.

E che ansia la Minetti, sempre in primo piano
di cui non si può parlare per non ferir nessuno
“sex worker” in rivolta per Vauro e la vignetta
femministe aggressive che aspettano vendetta.
Intanto il tempo passa e anziani già al collasso
dovran restituire ciò che han sotto il materasso.

Insomma siamo ormai, ai verbi difettivi
Sergio e Della Valle si fanno più cattivi.
S’insultano a vicenda come scolaretti
mentre gli operai saltan giù dai tetti.
Anche la Ferrero lascerà questo paese*
L’IVA è troppo alta e ne facciam le spese.

Ho visto solo un paio di telegiornali
e mi è parso di sentire frasi abituali,
nessuno parla più di grandi patrimoni
la colpa è solamente dei piccoli evasori.
Non si parla neanche più di chi si suicida
forse perché pensano porti anche sfiga.

Forse io dovevo restare lì a Lisbona,
dove almen la vita, non è poi tanto cara,
ma amo il mio paese, non posso rinunciare
a restar comunque qui e cercar di lavorare.
Il lavoro è un diritto, ma pare sia un difetto:
mi sento una ladra o un disgustoso insetto.

Poi ci sono i giornalisti che parlano d’invidia
di noi sottoproletari che agiamo con perfidia,
come non bastasse lo spettacolo umiliante:
la casta stramangia, il popolo è indigente.
Vedo che in tre mesi non è cambiato niente,
ma io son tornata più incazzata e furente.

*Ferrero smentisce continuiamo quindi a comprar Nutella

Foto E.B. Elaborazione Grafica di Ivana Inocente

lunedì 24 settembre 2012

THE RED LIST #Johana

















Prima o poi scoprirai di essere nella RED list di Johana, o di una sua amica.


Johana, questo è il suo nickname, ha una storia con Davide.
Davide è un medico cinquantenne mediamente fedele alla moglie che non è Johana. Quantomeno leale, le dice ogni volta di là dal monitor prima di domandarle di fargli uno di quei giochini che lo soddisfano in quattro e quattro otto. O anche due e due quattro.
Joahana prende atto della richiesta ed esegue.
Dopo, e per almeno due settimane, Davide sparirà.
Non le scriverà.
Cancellerà la TL (per i neofiti è il wall).
Cancellerà i DM (Direct Message).
Sarà sempre disconnesso da Skype.
Introvabile in chat.
Johana non si dispera perché terminato il periodo di contrizione, il Newman 2.0 tornerà all’arrembaggio postando un pezzo pop inglese stile ballo adolescenziale, accompagnato da un “per te” con faccina sorridente che significa poco, ma è già qualcosa.

Meno male che Johana non sta solo con Davide, che tra l’altro vede solo online e da due anni.
Paolo, napoletano trentenne dal saluto ammiccante e il profilo importante, si fa vivo ogni quindici giorni e sempre con la stessa scusa. Abitudinario del sesso liquido, segno zodiacale scorpione, le racconta sogni sconci in cui la protagonista è lei ma anche tante altre.
Non si sono mai toccati se non durante una manifestazione: sinistra, moderata –insomma quella che c’è.
Sfortunatamente, Paolo non arrivava mai oltre il terzo DM, cioè quando Johana lancia un’esca un po’ più grossa, ma solo per assicurarsi che non sia cambiato niente.
Lui la accontenta e ogni volta si dà a gambe.

Massimo, anestesista milanese, di grosso ha soltanto i problemi: moglie insoddisfatta e depressa, stipendi sempre in ritardo, i soliti tempi che corrono e che lui proprio non riesce a fermare così come quei bugiardi “se ti avessi tra le mani”, che esigono sempre la stessa risposta e che –solo per compassione e materna tenerezza- Johana gli dà volentieri.
Massimo dal sorriso bianchissimo, sogna un fine settimana esotico con Johana e nel frattempo le invia e mail così poetiche da lasciarla ogni volta senza fiato e senza risposta.

Ogni giorno una distrazione, un potenziale errore e una sicura perdita di tempo. Come Matteo, ingegnere aerospaziale dal piglio da maschio alfa e mascella stile Bardem, che le promette orgasmi marziani, ma che per un motivo o per l’altro, fantasioso ma anche plausibile, riesce ormai da otto mesi a evitare di incontrarla live.
Se tra uno e l’altro raptus di passione, Matteo, Paolo e Davide si danno alla macchia, Johana può contare su “grassoeincorruttibile”, “logorroico” e “maschiozeta”, narcisisti pseudo artisti che si divertono a parlare di se stessi e se stessi e se stessi e delle grandi manie di cui sono ostaggio.

Johana ha molto da fare.
Icone cinquantenni e PIC ventenni, medici e architetti, nullafacenti e creativi, disoccupati e iperattivi, sposati e soli, passionali o freddi, si alternano con battute, buoni argomenti e risposte lasciate a metà.

Non si è nemmeno fatta mancare il vecchio compagno delle elementari dal colpo di nostalgia senile e il senso di colpa gigante.
A ogni e mail più trasgressiva seguono sul wall le seguenti pic: bimbo, bimbo e moglie, lui bimbo e moglie, lui, bimbo, moglie e nonna.
Johana pensa che abbia un bello sguardo e tanto le basta.
Di notte le invia brevi DM che dicono poco e in cui Johana, comunque, s’impegna, a trovare qualcosa d’interessante.

Lucio è silenzioso e la bracca con insistenti “mi piace”.
Ha quarant’anni circa e una bacheca che pare una casa in riva al mare abbandonata da anni.
Ogni volta che Johana ci capita le pare di sentire odore di chiuso e sabbia, di piccoli insetti defunti attaccati ai vetri delle finestre e i vecchi quotidiani, lì sul tavolo, sono stati piegati dall’umidità e dal calore.
Ha solo due foto, quelle del profilo, in cui mostra mezza faccia adolescente e pure sfuocata.
Chi sei? Gli ha domandato una volta.
Nessuno, ha risposto lui dopo due giorni e senza mettere neanche il punto fermo.
Johana è convinta che tutto quello spazio bianco sia, perché no, pieno di contraddizioni interessanti.
Per Lucio, immagina un’esistenza di passioni rosso fuoco e di lunghe assenze, di rimpianti così grandi da aver fatto fuori qualunque desiderio e speranza.

L’affaire più interessante è sicuramente Walter, avvocato genovese alto più di due metri con il quale Johana ha avuto un appuntamento al buio con sorpresa gigante, durata medio lunga e passione alle stelle.
Da quel petting animale a Villa Borghese, protetti da un largo tronco e da un folto cespuglio, non si sono più visti. Ogni volta che Johana pubblica una nuova foto o un autoscatto, Walter s’impegna a rivederla. Al più presto, le scrive.
Johana sa, e forse anche Walter, che non s’incontreranno mai più.

Stefano, posta foto di donne dalle grandi tette.
Va per luoghi comuni e delle volgarità che diffonde non gli importa niente, ma ha “quel Johana non sa che”, che la tira da morire.
Nelle foto, in cui maneggia vanga e zappa nella piccola masseria in Puglia, Johana si perde tra le pieghe dei pantaloni di velluto a coste troppo larghi per giudicare e le mani, abbastanza grandi per intuire.
È pieno di contraddizioni. Le grandi tette che affollano il suo wall c’entrano poco o niente con certe ammissioni: che la sua felicità non è che apparenza poco solida.
Come gli altri, anche lui resterà immobile nella sua icona ancora per un po’ prima di scomparire nel nulla ingoiato dai pixel.

Infine c’è Vittorio.
Lui è un uomo serio, un Klaus Kinski dal fisico bestiale. Il sabato e la domenica lo dedica allo sport compresa l’equitazione. Nella sua spasmodica ricerca della perfezione estetica ha trasformato il salotto di casa in un giardino zen.
Tra i vari interessi ha anche il disegno a china.
Perché non sia troppa confusione crea data base per ogni cosa, anche per la collezione di vinili e i reggiseno di sua moglie.
Vittorio non ha nessun account, almeno così dice.
Johana lo vede due volte al giorno, al mattino a colazione e la sera, quando è troppo stanco anche per parlare.
Dormono assieme da dieci anni, e tutto sembra andare bene.

(p.s. se vuoi confidare un segreto a Johana scrivi qui: Bibolotty@gmail.com)

mercoledì 19 settembre 2012

Il sorriso di Laura


Alle sei del mattino Laura cerca un’espressione migliore.
Ma quella riflessa nel vetro opaco della cucina lì a due passi dalla tangenziale, è l’unica che ha.
Il respiro dell’uomo, di là, sembra quello di un grosso animale, e poi c’è un pensiero che da ore non l’abbandona, una definitiva risoluzione, la preghiera esaudita, una lama di luce filtrata in una vita fatta di privazioni.
Vieni in Africa con noi, le aveva detto la donna dall’aria alternativa appena due giorni prima durante un incontro casuale, al termine di due chiacchiere per distrarre l’attesa, confidenze a una sconosciuta, al comune, in fila per il rinnovo della carta d’identità.
Non sono una da colpi di testa, io, le aveva risposto Laura che adesso, in piedi in cucina, sposta la ciocca troppo lunga dalla fronte troppo alta e mette in ordine le idee.
Tra meno di due ore sarà in piedi accanto al dottore che guadagna il quadruplo di lei – consuete disparità umane- e che dall’altra parte della città trapana, incide e sutura.
Eppure di quell’oggi Laura non riesce proprio a vedere la fine, ed è strano, perché il destino le si presenta al mattino chiaro e immutabile, scritto a caratteri cubitali nel suo dna. Un percorso a senso unico, un tatuaggio indelebile sulla pelle chiara, un futuro sempre uguale da quindici anni.

Abbiamo bisogno di te, ti prego pensaci, le aveva ripetuto dopo averle messo in mano il suo biglietto da visita e prospettato un lavoro in un’organizzazione umanitaria, tra i bambini, in un grande ospedale non ricordava più in quale regione dell’Africa.
Quell’idea la rincorre da ore, e ogni volta che ci pensa, sorride.
Era convinta di non saperlo più fare, di averlo dimenticato sull’altare quindici anni prima, il sorriso, assieme al nauseante accrocco di fiori in quella chiesa che di trascurabile aveva persino il niome, una “Concezione Immacolata” qualunque.
Accende il televisore ultrapiatto, un’abitudine come tutto il resto.
È troppo grande per quella cucina stretta e buia, pensa, per quella casa, per una vita senza spiragli da cui guardare, fra quattro mura ultraleggere che sembrano proprio di cartone quando il vicino tira la catena o tossisce.
E' passato così tanto tempo che nemmeno li ricorda più i suoi sogni. La sua vita è stata una sosta troppo breve, una presa in giro come quando dopo una lunga attesa accendi la sigaretta, l’ultima, e vedi il tram arrivare.
E pensa che non può perdere altro tempo in sciocchezze simili e deve mettere su il caffè perché quella giornata è nata veramente storta con quell’ingombrante prospettiva per la testa che solo a immaginarla il cuore aumenta i battiti e le sembra d’impazzire.
L’Africa.

Mette l’acqua e poi il filtro, si muove come un fantasma nella sua esistenza inutile.
Il braccio ha sempre la stessa distanza dallo scaffale e il caffè sempre un buon profumo. Anche in quella casa lì, anche se è la quarta volta in un mese che l’ascensore si rompe e quello, di là, ancora dorme per effetto di una frustrazione sempre vigile. 
Laura fa i piani per la serata e accende il gas.
Stasera troverà il tempo per fare un bagno e metterà lo smalto mentre lui, con i piedi sul tavolino, guarderà l’anticipo di serie A. Una gioia evitare di mettere in fila tre frasi sensate e dire che va tutto bene quando invece non è vero niente. E speriamo pure che vinca la sua squadra del cuore, pensa, ammesso che il cuore ce l’abbia e che sia ancora lì, al posto giusto, così poi sta tranquillo per una settimana e mi porta fuori da qualche parte, in un centro commerciale dove si sta freschi e ci viene pure suo fratello, così se ne stanno a parlare tra loro e guarderanno le altre. 
Le altre, sì.
Poco importa se sono più di dieci anni che Laura va in palestra, nemmeno sa più com’è fatta visto che gli bastano le sue braccia per affondare la rabbia, al massimo le gambe, la pancia, la schiena, ma mai la faccia: rischierebbe grosso e sarebbe costretto a camminare con lo sguardo basso o peggio, a domandarle scusa davanti a quella livida evidenza.
Si morde le labbra e sorride, in piedi e con quell’idea per la testa che da quarantotto ore ha anche un nome, un numero di cellulare e un volo in partenza da Fiumicino.
Ti aspetto lì perché so che ci sarai, le aveva detto la donna dallo sguardo aperto e franco.
Laura prega che il tempo sia clemente e si fermi un attimo.
Deve pensare, chiede un attimo ancora.

E invece no, perché è una vita intera che ci pensa, che ipotizza e immagina cosa si prova a compiere quel gesto, quello che proprio non si può dire e che quando lo guardi in tv ci ridi sopra perché sai che è solo finzione.
Perché non ti puoi liberare di un destino così, perché quando non lo hai fatto la prima volta non lo fai più, rimandi e nel frattempo diventi vecchia.
Riflessa nel televisore, Laura si passa il biglietto da visita tra le dita.
Il numero lo sa già a memoria.
Come quei particolari ripetuti già troppe volte e che no, non c’è bisogno di ripassarli ancora. I gesti li ha definiti uno a uno, le cause e gli effetti li ha ripercorsi ogni istante, a bassa voce, sotto la doccia, in auto, in piedi accanto al dottore, a casa mentre prepara la cena, quando rifà il letto, quando quello, di là, dorme.
Li ripete da anni come una preghiera, un salmo, notte e giorno.

Ascolta quel respiro che sembra una minaccia continua, un suono orrendo di cui si vorrebbe liberare da sempre, da quella volta lì, quando non contento di averla fatta cadere aveva continuato ad accanirsi sul suo corpo che chiedeva aspetta, che urlava ti prego, che domandava scusa anche se non c’era un bel niente da scusare.
Laura infila il biglietto da visita in borsa.
Dove il buio è ancora più fitto lui si nasconde, in quella stanza, dove il sole non batte mai e dalla finestra si vede un lampione che sembra la luna e di matrimoniale non è rimasto che il letto e la bomboniera ossidata sui bordi, lì è la sua tana. Una volta sveglio si domanderà di cosa è fatta la sua esistenza e di fronte al nulla si rivolgerà a lei, al suo braccio, alle sue gambe, al suo ventre colpevole di sterilità.
Laura prende dalla madia passaporto e carta di credito.
In piedi, al centro della cucina, pensa che quell’uomo da solo non è capace nemmeno di allacciarsi le scarpe e che senza di lei non camperà a lungo.
Poi pensa a quella volta che la fece rotolare per le scale: un incidente, un piede messo in fallo, Laura, ma cosa vai a pensare, le aveva detto trasportandola al pronto soccorso. Eppure non l’aspettava mai in cima alle scale, mai una volta che fosse sceso dabbasso quando l’ascensore era rotto e lei doveva farsi sei piani a piedi con le buste della spesa. Una rampa era bastata per farla abortire, una rampa era stata sufficiente a toglierle per sempre quell’idea assurda dalla testa.

Ascolta il respiro che di là nel buio si è fatto più breve.
Cerca qualcosa da infilare.
Il caffè è uscito: chi se ne frega, lo berrà freddo.
Fanculo le conseguenze, i pregiudizi, gli atti.
Adesso ha con sé una piccola valigia. 
È pronta lì sotto il letto da quarantotto ore o forse da sempre.
Aveva immaginato ogni notte una vita altrove, un’esistenza tra gente che della sua disposizione d’animo aveva veramente bisogno, ai sorrisi dei figli che non avrebbe mai avuto.
Quando impugna la stilografica, sente il traffico farsi più denso e l’odore pungente delle polveri sottili nel naso dritto e appena un po’ lungo.
Scrive qualcosa, due righe tremolanti e concise.
Si guarda intorno e certe idee provano a fermarla, un’assurda compassione per il suo carnefice.
Impugna borsa e valigia.
Riguarda il foglio lì sul tavolo accanto alla caffettiera e al piatto di biscotti imburrati, sa che lui non si darà mai un perché.

Si ferma incerta, no, non ha nessuno da salutare, non ha amici, rinchiusa da anni in un rapporto a due che non sopporta la vista degli altri e il paragone con vite meno grigie.
Lui la chiama che Laura ha già un piede fuori dalla porta, il sinistro, quello del cuore e del dito dove portava l’anello. Perché quello l’ha lasciato sul comodino, accanto alla foto delle nozze e ai tranquillanti che non servono più.
Al secondo -Laura! – che il farabutto le urla dal letto, è per le scale e scende di corsa, fa i gradini due per volta trascinandosi dietro tutto il dolore che proprio non vuole scordare per mai più tornare.
Al terzo, quarto e quinto “Laura”,  è in strada, in auto che affonda il piede sulla frizione.
Quando quel grosso maiale, in piedi in cucina, legge l’ultima riga, è ferma all’Autogrill e domanda il pieno.
In borsa controlla ancora una volta il passaporto.
Nello specchietto Laura sorride, sposta la ciocca di capelli dalla fronte alta: direzione Fiumicino.

 p.s. I miei racconti non finiscono mai bene, le storie a lieto fine sono quasi sempre bugiarde. Come questa qui. Perché dall'inferno non si può uscire.


sabato 15 settembre 2012

Tra Darcy e Mr Big


Se Mr Big non avesse avuto il macchinone e un corposo conto in banca, non credo che la compulsiva collezionista di abiti e scarpe di marca, l’eroina Carrie, avrebbe fatto tante storie e per ben sei serie televisive.
Ogni volta che mi piace seriamente qualcuno mi domando sempre, e provo a essere sincera, se lo amerei comunque, fosse anche il salumaio sotto casa.
Così non è. E d’altra parte come possiamo giudicare un uomo se non dal suo insieme, come possiamo amare le sue caratteristiche non tenendo conto del suo status sociale.
Ed ecco la differenza numero uno.
Nell’immaginario collettivo, infatti, e in quello maschile in particolare, se una donna è bella, gentile e mansueta tanto basta.  E non lo dico io, non mi sto inventando niente, penso per esempio alle produzioni hollywoodiane dove non si è mai vista una ricca Manager fare il filo al “prostituto” di quartiere, dargli la carta di credito e mandarlo per negozi a rifarsi i guardaroba affinché, a fine giornata, l’aspetti disteso sul letto.

Penso al successo dell’estate, che ha visto milioni di donne sulle sdraio a sognare Mr Grey e le sue fruste. Se non avesse avuto elicottero e attico panoramico, ma si fosse trattato di un meccanico, bello sì ma di Tor Marancia, la virginale protagonista sarebbe fuggita assieme ai suoi “rossori” alla prima sfumatura di sado maso.
Inutile girarci attorno e continuare a domandarci cosa c’è che ancora non va.
Basta guardare i numeri delle donne sedute in Parlamento e a capo delle industrie nostrane –quelle che sono rimaste-.
Se in azienda il top Manager è donna, dal piglio aggressivo, lo sguardo severo e la voce grossa, sarà automaticamente etichettata come stronza, isterica, frigida, se di contro è un uomo, sarà un grande Manager. Se tutto andrà bene e la donna riuscirà faticosamente a guadagnarsi la stima dei suoi sottoposti, sarà una donna “con le palle” -attribuzione così detestabile che mi fa orrore persino scriverla.
Ma il punto è sempre lì.
Le caratteristiche della donna così come quelle dell’uomo non sono cambiate. E io non avrei nulla da eccepire se non fosse però peggiorato il nostro vivere quotidiano.

Un tempo, e nemmeno troppo lontano, se la donna aspirava a fare un matrimonio ricco e a sistemarsi, fosse pure con un vecchio bavoso come Arnolfo Signor de la Souche, nessuno avrebbe avuto niente da ridire. Oggi, è uno scandalo.
Allora bisogna farlo di nascosto, celare il fine ultimo persino a noi stesse e fingere che dietro l’interesse economico ci sia chissà quale grande amore.
Per questo apprezzo molto di più chi si fa pagare. Pensate che tristezza dover chiacchierare con le amiche delle peculiarità sessuali del signore che ci mantiene, nell’ansia crescente che suonati i quaranta ci darà il benservito per una di venti.
Certo, oggi al contrario di ieri, tempo in cui in caso di divorzio una donna poteva anche sentirsi negare anche la possibilità di vedere i propri figli, abbiamo molte più tutele, ma rimane una scomodità di fondo, un non saper bene dove collocarci e come agire, chi essere.

Perché al naturale ruolo di “fattrici” e di angeli del focolare si è aggiunto quello di essere –e giustamente- donne indipendenti.
Come se fino agli anni settanta fossimo vissute nell’ovatta: non ci sono tra gli “eroi di guerra” le migliaia di donne rimaste a casa tra le macerie alle prese con il nemico –maschio e in divisa- e la borsa nera.
Ho la sensazione che dichiararci pubblicamente consapevoli della nostra indipendenza sia stato il più grande errore che potessimo commettere.
Perché a questo punto tutto diventa un controsenso, le armi che abbiamo per le mani sono a doppio taglio e rivolte contro di noi e solo perché ragioniamo più rapidamente, siamo perfette per il “problem solving” e in fatto di diplomazia non abbiamo eguali.
E il problema non sono gli uomini che anzi, per la maggior parte amano la nostra capacità di togliergli le castagne dal fuoco, il problema, forse, sono le donne che odiano le donne: per invidia e non per ideologia.

Oggi, sembra che ci sia “di male” a fare qualsiasi cosa: c’è di male a fare marchette, c’è di male a sposare Briatore, c’è di male a fare la casalinga così come a non avere figli.
Tutte pronte a sognare Mr Gray senza perdere una puntata di Sex & the city ma anche pronte a puntare il dito e condannare quella più bella, più furba e più arrivista.
Per alcune dovremmo spuntare le nostre armi: seduzione e capacità di persuasione, per altre dovremmo invece esaltarle.
La verità è che se abbiamo cambiato abito non abbiamo cambiato la nostra attitudine al pettegolezzo e all’invidia, a quel bla bla bla da parrucchiere che fa –giustamente- tanto ridere i maschi.
È che nei partiti e nelle aziende come nei giornali o nelle case editrici andiamo avanti sì, ma sotto l’egida del maschio che, signore e padrone, continua a rimanere sul piedistallo e a decidere le nostre sorti.
Allora non sarebbe meglio dire le cose come stanno ed evitare di fare mille giri d’ipocrisia per arrivare al punto, che poi è sempre quello?
Io amo le donne e ne sto incontrando di magnifiche. Donne intelligenti, professionali, piene di fantasia e buon gusto, colte e piene d’ironia però, sono convinta che in determinate situazioni –e a supporto di ciò ci sono centinaia di studi sul comportamento delle donne nei luoghi di lavoro- potremmo diventare belve feroci e sbranarci l’un l’altra.
Ecco cosa c’è che non va: manca la “sorellanza” tanto auspicata dai movimenti femministi italiani e che non siamo mai state in grado di creare. Non va che ci ostiniamo a non voler riconoscere la nostra natura e vogliamo credere di aver fatto passi da gigante quando invece, per sposare Mr Darcy e sistemarci, saremmo disposte a vendere anche nostra madre.

So benissimo che questo post farà infuriare molte donne. So che in tante mi domanderanno che amiche frequento e che loro no, non sono così. Naturalmente ci sono le eccezioni, ma di Luo Salomè ne nasce una sola nella storia dell’umanità. Non intendo nemmeno sdoganare un argomento così importante in poche righe, ma la regola, rimane quella, e forse, se vogliamo fare qualche passo avanti, dovremmo cominciare a farci i conti sul serio.




giovedì 13 settembre 2012

La #derivaditwitter2: Snob, Vip e Prolet


Appunti sulla deriva culturale e la disgregazione di massa


Sempre mia nonna, che vestiva Chanel, profumava Dior, aveva studiato in collegio svizzero e mi costringeva a camminare con i libri sulla testa, era deputata al giro in centro per le compere stagionali.
Sulla via più elegante e al mattino presto –che c’è meno gente-, scortate dalla tata o “signorina alla pari” –studentessa di paese che in cambio di vitto e alloggio badava alla bambina, cioè io-, andavamo alla ricerca di capi per il mio guardaroba nuovo.
Io mi entusiasmavo davanti a ogni vetrina esponesse roba colorata e manichini di bimbi dagli occhi chiari e il sorriso ottimista, lei, abbracciata al bauletto Vuitton, scuoteva la testa e a mezza bocca diceva una frase che proprio non capivo: è alla strada.
Il maglione rosso era “alla strada”, il pantalone di velluto liscio “alla strada”, la blusa nera lucida “cafona e alla strada”, la camicina con pizzi “brutta, cafona e alla strada”, l’abitino di carnevale da damina del ‘700 “ce l’ha la figlia del giornalaio”, “cafone”, “pacchiano” e “alla strada” e così via.
Alla fine ordinava a Parigi così stava tranquilla.
Se la mia splendida nonna dallo sguardo di ghiaccio fosse ancora viva, direbbe che twitter e “alla strada” e avrebbe cancellato l’account anzi, non l’avrebbe mai aperto.

Se personalmente non amo essere etichettata, mettere definizioni addosso agli altri mi pare quasi obbligatorio: lo facevo da attrice per trovare il personaggio, lo faccio oggi per scrivere.
Un tempo esistevano solo due generi di Snobismo e orientarsi era assai più semplice.
Il primo è quello di cui sopra, lo Snobismo degli intoccabili, il secondo, quello dei compassionevoli che ha più o meno le stesse regole, ma si è adeguato ai tempi e a una condivisone obbligatoria, assai pericoloso per i “Common” o i “Prolet” di orwelliana memoria: li trae in inganno.
Si tratta dello Snobismo democratico ed egualitario, che non ha fede politica, che va in giro vestito un po’ “scagato”, che porta al polso l’immancabile –Rolex no perché è “alla strada”- ma un Bvlgari ultimo modello, che ride sguaiatamente, se giovane s’infila le dita nel naso, e se può, mette i piedi sul tavolo lasciando che la suola della sua scarpa fatta a mano, sia a un palmo dal povero naso comune.
Lo Snob democratico parla latino con i vescovi e dialetto con gli operai, mangia volentieri alla tavola dei contadini delle sue tenute in toscana e dispensa loro complimenti lavandosi poi le mani con alcol e amuchina; giura di non essere mai stato così felice in vita sua se pranza con un Prolet e poi si ritira nella “spa” più esclusiva per alcune ore: giusto per levarsi la sfiga di dosso-. La sera stessa parte per Londra e dimentica di dirlo agli otto filippini che lo servono e che il giorno dopo l’aspetteranno inutilmente per colazione e cena.
Questo tipo di Snob è anche sinceramente curioso, è un mecenate –ospita e foraggia artisti talentuosi-. Generalmente non corrisponde l’amicizia sui social media ma risponde ai tuit: è democratico, perché non dovrebbe?

C’è poi lo Snobismo VIP di stampo cafone.
Il Vip, infatti, non è mai Vip per nascita o per acquisizione, ma solo per culo.
È arrivato al grande pubblico grazie a un fatto di cronaca, di sesso o per un programma TV, ha scritto un libro sul vivere sano in cui cita lo zen, ma se gli domandi cosa sia ti risponde che è una spezia.
Manca totalmente di classe e commette errori, tanti, ma di cui solo i veri Snob si accorgono.
Un esempio per tutti è andare a Cortina in piena stagione turistica –solo per un fine settimana-, alloggia al Posta, veste l’abito ampezzano senza un filo di originalità o peggio minigonna e tacchi a spillo, rimane fermo al caffè in Piazza per tutta la mattina fingendo di leggere un quotidiano e indica –con dito puntato- tutti i “pezzi grossi”, che in eleganti completi alla zuava volutamente lisi, fanno la spesa assieme a uno stuolo di camerieri dispensando saluti a gente del posto e a bottegai (Snob democratico).
Il VIP ha vita breve perché come è noto, il consumismo mediatico è peggio della lebbra e in grado di decimare personaggi pubblici nel giro di poche settimane, a volte di poche ore, quindi, per non perdere tempo, il VIP cerca modi per rendersi originale: indossa cappotti firmati esageratamente lunghi già in ottobre, cucina alghe e tofu, adotta bambini a distanza e lo urla ai quattro venti e arriva con il suo orrido cabinato in affitto a due metri dalla spiaggia di Capalbio.
Al polso porta il vistosissimo Rolex e la fede Bvlgari.
Questo tipo, in possesso di una cultura da quarta di copertina, non “folloua” nessuno, non ricambia saluti, si finge sempre occupato in qualcosa di grosso, se non capisce insulta, e non sta mai con i suoi simili: i Prolet.
Li sfugge, li ignora, teme di ritornare nella mischia e allora s’innalza, s’incensa e si loda.
Compra fan, paga giornali per finti scoop.  Al tramonto della breve carriera cura pubbliche relazioni per locali e discoteche. È un fan del botulino.

Umile davanti ai complimenti, ambizioso in cuor suo è infine lo Snob intellettuale.
Come il “nero bianco” è inviso alle altre categorie e ricambia, ma non apertamente – oggi chiunque può sempre servire meglio non farsi nemico nessuno.
Disprezza il denaro, ma cerca il modo più rapido per farne. Rifugge le mode “alla strada” e ne propone di continuo di nuove e originali. Amava Alda Merini –quasi sempre l’ha conosciuta e scoperta lui stesso- ma solo prima che fosse ridotta a “tuit”.
È lapidario nei giudizi e quindi ottuso: bianco e il nero sono i suoi colori, quelli che scorre ogni giorno sul monitor e che riflettono la sua parte migliore.
Lo Snob intellettuale è seducente e ambiguo.
Se un collega ha successo e va in tivvù dichiara tristemente, e non troppo tra le righe, che si rovinerà, se lui ha successo e va in tivvù se l’è solo meritato.
Il mondo cambia secondo il suo metro di giudizio e secondo l’umore. È  generalmente in grado di ottenere consensi: controtendenza, controcampo, contrariato.
Uno dei primi con l’account su tuitter dichiara ogni giorno che ne uscirà. Finge di non starci mai eppure controlla la TL ogni due minuti.
Tratta tutti come merde ma poi si offende se offeso.
Egualitario a parole e Snob nei fatti.
Originale nel dire, convenzionale nelle azioni.
Se gli domandi perché non ti saluta, risponde soavemente che non ti ha visto o era distratto.


Infine ci sono tutti gli altri, la massa, i Prolet: che le mode le prendono per la coda, quando sono già “alla strada” e non costano più niente.
Pubblicatori della domenica dalle idee confuse.
Idealisti.
Che occupati a sopravvivere si arrampicano sugli specchi di una realtà piena di occasioni che arrivano tardi e di scoperte fatte troppo presto, di opportunità già occupate, vittorie già giocate e ruoli già assegnati. Di bandi di concorso scaduti.
Occupati a cercare un posto su un autobus affollato.
Drogati di novità tecnologiche e sesso gratis. Di partite e scandali. Impegnati o qualunquisti poco importa, tanto sono già compresi nel sondaggio, non un pensiero originale.
Perché se il 2.0 gli ha dato l’illusione di stare più a contatto con il mondo che “conta”-ville, aziende, barche-,  ha tolto alla “massa” il potere di stare in gruppo, baciarsi sulle labbra e guardarsi in faccia.
Oggi, i Prolet sono disuniti e distanti, a volte anche colpevoli: colpevoli d’invidia e odio verso chi determina il loro futuro senza consultarli, dicono, ma di certo più colpevoli di ammirazione e idolatria verso le suole delle scarpe del Vip a un palmo dal loro naso comune.
Ieri, quasi tutto era creato dai Common, in piazza, per le strade, nelle sedi di partito. E faceva paura. Ieri si chiamava “movimento”: rinascite culturali, agitazioni politiche e aziendali, lotte di classe. Oggi, ci si nutre di “tendenze” ed “eventi” creati da VIP e SNOB: che non servono a nessuno, non determinano cambiamenti e fanno sì che si eviti di pensare.
Arrivano su Twitter che Fiorello già non c’è più e si affannano a collezionare follower che collezionano follower che collezionano follower...





domenica 9 settembre 2012

Is Just a Gigolò

Tra Lilith, Eva e la Mela





Visto che l’io, oggi, è ancora una volta l’esca migliore, vorrei mettermi a tu per tu con le signore che verso le sei del pomeriggio, come garrule colombe, tuittano grida stridule al web e minacciosi anatemi al mondo e al maschio: che non le chiama, che non le cerca, che non c’è, che non le vuole.

Partiamo dal fatto che il “tu”, in una comunicazione “one to many”, è assai fastidioso per chi sa di non essere il destinatario del messaggio. In aggiunta, dal suono poetico ma dal significato sempre uguale, certi “tuit” rischiano di far salire la glicemia alle stelle e di procurare fastidi alla vista, anche nel maschio in questione.
Le frasi che leggo più spesso non sono che 140 caratteri banali e che esprimono sempre lo stesso “bisogno”: di essere cercate, scelte, prese e amate. Ancora una volta passive creature dal cuore infranto e disposte a tutto per diventare “preda” di qualcuno.
E ritorniamo al solito “non ci siamo mosse da lì”, da quando cioè Penelope tesseva la tela in attesa del marito fedifrago rifiutando i Proci, seppur belli, ricchi e capaci.

Anche i Gigolò, nel bel paese della donna ai fornelli e il marito in poltrona, sono “utilizzati” come mezzo e non come fine.
Da due mesi che ho tra le mani l’intervista a Roy Gigolò, ma proprio non so che farmene per quanto poco interessante è ciò che ho scoperto.
Roy http://www.roygigolo.com/ ), simpatico e molto bello -almeno per i gusti più comuni - ha risposto con sincerità e candore a tutte le mie domande, ma senza rivelarmi niente di più di quanto rotocalchi femminili e noiosissimi magazine on line non mi avessero ampiamente spiegato –tutti con le stesse parole e usando le stesse fonti-.

Nessun “triangolo” alla “American Gigolò”: marito che guarda e donna che si fa possedere, azione ben diversa dallo scambismo, in voga da anni nei localini di provincia. Nessuna richiesta dal sapore trasgressivo, nessuna fantasia particolarmente piccante, niente catene, fruste o molestie consenzienti.
Roy, che di donne ne ha conosciute molte, mi racconta di voci flebili e visi arrossati dalla vergogna, di timidi approcci e balbettanti richieste di “qualcosina in più”.  Perché al contrario di ciò che pensavo, certi approfondimenti da “dopocena” sono rarissimi, come si trattasse di una colpa e di un affronto al comune senso del pudore, che è sempre e soltanto quello che ci vede affaccendate attorno al galletto di casa che invece, così come richiesto dal ruolo, tranquillamente “becca” nelle aie altrui -virtuali o reali non è importante.

Roy mi racconta che la maggior parte delle sue “prestazioni” sono, infatti, quelle dell’ingelosimento o dell’accompagno.
La donna di cui parliamo, nel 2012, non vuole essere single, se ne vergogna, si sente diversa e in colpa. Per un matrimonio o una festa di laurea, per una prima teatrale o un vernissage, l’affermata cinquantenne latina è disposta a pagare grosse cifre per evitare di sentirsi non abbastanza bella o non abbastanza desiderata.  Essere single è un privilegio enorme: la libertà di prendere il meglio da uomo tralasciando le numerose nevrosi, insicurezze e ansie, che di norma ci propina come corredo matrimoniale.  

Ancora una volta, nonostante quel “ lui” l’abbia lasciata per una stronzetta di vent’anni più giovane, la quarantenne bancaria o insegnante cerca l’affermazione attraverso la riconquista di colui che l’ha tradita, umiliata e offesa, recandosi a una festa di amici comuni con al braccio un bel giovanotto affittato per l’occasione.
Perché è questo che succede ed è questo il solo taglio che riesco a dare a questa intervista:
parliamo di femminismo e di luoghi comuni da abbattere, ma nella realtà, quando alziamo il telefono per chiamare un uomo a pagamento, ci sentiamo timide come dodicenni alle prese con un adolescente dall’ormone aggressivo, e balbettiamo.

Non sarà forse teniamo a un certo ruolo perché maledettamente più comodo?
L’uomo, cerca disperatamente, e da anni, di liberarsi dalle responsabilità che gli abbiamo imposto alla nascita e noi gliele ributtiamo addosso appena possiamo: sei tu che mi hai presa, ora, tienimi con te.
Ma siamo sempre Adamo ed Eva, o meglio ancora siamo Lilith e Adamo, come cerca di spiegarci Roberto Sicuteri in “Lilith e la luna nera” (Astrolabio), e che racconta l’inconciliabilità fra corpo e spirito, che ha determinato da secoli l’inferiorità della donna e il suo sentirsi “passiva”.
Perché secondo la legge originaria siamo uguali e dovremmo sceglierci assieme e assieme lasciarci.
Nessuno ha il primato della colpa o della sofferenza, nessuno fa ciò che non vuole –sempre che non si tratti di rapporti non consenzienti-, e se ci guardiamo dentro con sincerità, scopriamo verità oscene: che “quel” lui non ci piace più, che russa, che lo rivogliamo solo per orgoglio o per abitudine o peggio per soldi.

Siamo grandi e ci sobbarchiamo fatiche enormi, e invece di sognare avventure e descriverle con mille sfumature –di grigio, nero e rosso - e di cercare quello che non ci vuole più, dovremmo essere in grado ti tirar su il telefono e domandare al bel tizio che si fa pagare, ciò che un uomo chiederebbe a una prostituta, ossia di farci godere per bene e sino in fondo.
Perché il femminile non è passivo.
Piantiamola una buona volta di stare “dietro” al grande uomo, mettiamoci alla sua scrivania e ordiniamogli un caffè, con o senza zucchero.

Sono certa che togliendoci la maschera romantica dell’afflizione da abbandono, avremmo una ben più ampia possibilità di scelta. Liberando l’uomo dal giogo del possesso, della protezione e della responsabilità, i destinatari di certi “tuit” dolciastri si sentirebbero meno impauriti e forse più propensi a lasciarsi andare senza l’incubo dell’immancabile “per sempre”.

(Nella foto: Roy Gigolò)







sabato 8 settembre 2012

L'INCANTO





Era stata Giuditta a raccontarmi quella storia. Era successo proprio un pomeriggio di settembre, in cui malinconica per l’incipiente buio e per l’arrivo della scuola riflettevo se fosse meglio suicidarmi lanciandomi dal grande magnolio, fuggire di casa o iniziare il nuovo anno e decidere poi.
La terza opzione mi sembrò la più ragionevole e nonostante il divieto di uscire sotto il temporale, che d’estate fa sempre festa, infilai ai piedi le mie fedeli “occhio di bue” bianche e corsi al maneggio dove Giuditta viveva.
Andavo lì ogni volta che potevo, incantata a guardare ferrare i cavalli e accudirli, e ad ascoltare Giuditta e le sue storie.
Ci accucciavamo da qualche parte e lei cominciava.
Durante quei racconti fatti di pochi vocaboli e molto senso, espresso ora con salti, ora con sguardi di terrore o meraviglia e molto più spesso da lapidari “tu non capisci niente”, mangiavamo gelsi rossi che lei, in sorprendenti slanci di generosità, tirava fuori dalle tasche del grembiule.

Una volta, eravamo nella stalla di Zeus un cavallo bianco che per il suo carattere ombroso era tra i miei preferiti, mi disse che proprio un paio di giorni prima l’aveva sentito parlare. Sorvolò su cosa avesse detto, ma non ci mise molto a convincermi che quell’assurdità fosse vera. D’altra parte, convinta com’ero che ogni cosa attorno a me semplicemente fingesse di essere un oggetto inanimato, non mi fu difficile credere alle bugie che con la sua faccia rotonda e bruna mi raccontava.
In seguito passai molte ore nella stalla di Zeus facendogli domande del tipo in che scuola vai, hai la fidanzata, quando sei nato e così via. Poi mi dicevo che era solo troppo timido quando al tramonto, delusa per non aver ascoltato la sua voce, percorrevo il breve tratto di strada che mi portava alla villa.
Ma non fu la storia di Zeus a cambiare la mia vita e a far sì che conoscessi l’incredibile.
Perché solo i bambini sono in grado di crederci, assieme agli alchimisti, gente che per fame è in grado di tradurre la realtà in immaginazione e l’immaginazione in realtà.

E così, quel pomeriggio che pioveva a dirotto, presi per la campagna e corsi al maneggio.
Arrivata al basso muro di cinta già sentivo i nitriti di Zeus e l’odore del fieno dolce amaro. Rimasi per un po’ appoggiata al tufo nella speranza che in un momento di solitudine Zeus si dichiarasse poi, mi arrampicai.
Una volta arrivata ai box seguii la risata e la vocetta stridula della mia amica. Appena mi vide, senza nemmeno salutarmi, mi prese con forza per mano e mi trascinò nella stalla.
Devo raccontarti una storia bellissima, mi disse sottovoce, e si guardò attorno.
Avevo già gli occhi aperti all’incanto per come la sua bocca si spalancava dopo un profondo respiro per chiudersi di colpo.
Ma non ci riusciva. Quella volta Giuditta non trovava le parole.
Ipotizzai che Zeus le avesse raccontato finalmente la sua storia, quella su cui da tempo riflettevamo, ossia che fosse un principe meraviglioso che aveva bevuto il solito filtro eccetera eccetra, quando Giuditta sollevò il dito verso il cielo e con voce solenne disse: l’ho toccato.

Il silenzio fu interrotto da un tuono spaventoso e dal suo assunto.
Quando uno è felice tocca il cielo con un dito, no?, disse semplicemente e di nuovo sollevò la mano sporca di terra e di gelsi, puntandolo il dito con aria seria sulle nostre teste.
Mi guardò subito un po’ spazientita: si aspettava ben altra reazione a quella scoperta.
Non l’hai mai sentito?, disse mettendo le mani sui fianchi, l’ha detto mio padre proprio l’altro giorno, cantilenò come usavamo fare in quegli anni. 
Certo, la teoria di Giuditta non faceva una piega.
E anche i santi che vedevo dal letto e che tutti assieme banchettavano con Gesù in uno strano pulviscolo luminescente, ne erano una prova. In fondo cielo e terra non erano che una linea marrone tracciata con i colori a spirito e una blu. Che cosa ci voleva perché una, magicamente, si avvicinasse all’altra.
E così, tornata a casa dimenticai la storia.
Le piogge continuorono e la scuola iniziò. E mentre m’impegnavo a convincermi che quell’assurda perdita di tempo fosse necessaria, dimenticai anche Giuditta e il Principe Zeus.

Ma quel mattino le nuvole erano alte e bianchissime e mio padre, che mi aveva appena infilato una caramella in bocca, svoltò a destra.
Sapevo benissimo che per la scuola bisognava andare dall’altra parte.
Pensai che le mie occhiate tristi l’avessero portato all’esasperazione. Sapevo che quei pianti mattutini lo innervosivano e che lasciarmi da qualche parte, sulla strada, fosse per lui la soluzione più giusta, ma avevo sperato sul serio che non l’avrebbe mai fatto.
Così mi ritirai nel mio angolo a contare figurine, mi finsi indifferente all’abbandono e io stessa dimenticai quell’idea di epilogo tragico.
Lì, proprio sul prato più giallo che io ricordi, papà mi sollevò e mi prese in braccio.
Oggi non andiamo a scuola, mi disse, e io gli cinsi il collo, poi, vidi il cielo abbassarsi su di me e il mio dito sprofondò in una nuvola gigante.

(Foto di: Romualdas Požerskis)